Forse era di luglio. O d’agosto. L’unica cosa che si è scolpita, da rammentare, acqua e sole. La felicità ti mette nella condizione di avvertire con precisione la sua impermanenza. Il gorgoglio intestinale tra sussulti e piacere.
Mentre sali, precipiti. Audace, sull’istmo che scompare nella calura.
Ora sono le dune l’unico ricovero all’irrequietezza, ora le ombre dei corpi che si proiettano sulla rena. Dall’alto ti guardo mentre fumi il tuo tabacco Golden Virginia, arrotolato con cura.
Il silenzio, la potenza dell’onda che mostrava, incredibilmente, un pesce. Non avevo il coraggio di buttarmi in mare. Troppo aperto quel mare, astioso quasi, per affrontarlo.
La sacca buttata sulla sabbia, una canna, dita che intrecciano dita. Il bisogno di sparire. Forse è la cura. Non può che essere la cura. Io quella pelle la rivoglio: giovane, abbronzata. L’unico vestito felice che volessi indossare. L’unica forma estetica che si può spalmare sulle cosce. La sabbia si appiccica al costume. E ora la lingua di terra abbraccia l’acqua più a fondo, il tuo sorriso è più commovente e il mio appagamento struggente e assoluto. Perduto.
Ancora e ancora ho fame. Voglio succhiare le tue dita. Chiudere gli occhi e dissolvermi.
Ma poi l’onda ritorna o muore?
Dal tavolo operatorio dove ti hanno aperto per trovare il cuore, si leva. Oltre il soffitto. Oltre il quartiere periferico. Oltre il dolore. Oltre il torpore dolciastro. L’onda.
Io guardo, tu trovi il cuore
Quanta acqua in tanto mare. Leggo e guardo e ascolto e immagino.. poi rileggo e ci capisco qualcosa in meno.
E’ bello assai avventurarsi fiduciosi e circospetti nelle tue creazioni, davvero.
Ciao Miasalomè
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