A C. S. che non si è mai ravveduto ma sarà dimenticato. Come tutti
Litigo con lui. Seguono urla e minacce. Il professore esplode nella psicosi dell’autarca, rivendicando ubbidienza cieca in un iperbolico delirio con l’unico scopo di darmi una lezione. Resistenza passiva lunga due anni e gli sbatto in faccia quello che penso: è un sociopatico, non ascolta, ritiene gli altri mediocri mentre solo lui sarebbe un Dio in terra. Nientemeno che l’erede vivente di Derrida
Le fasi di disinnamoramento hanno lo stesso fascino del loro duplicato abulico, penso
Mi viene da ridere, trattengo lo sbuffo per far pesare a Emanuele il mio risentimento. Tra me e il professore era seguito un anno di silenzio. Giusto l’ultimo del mio dottorato. Mutismo con qualche e-mail di spiegazione, nel tentativo di trovare una strada buona per conciliare ma dura abbastanza da suggerire che non avrei rinunciato nemmeno a una virgola della mia dignità. D’altronde la maggior parte dei nostri scontri si basavano proprio sulla posizione di alcune virgole, sulle quali nessuno dei due aveva avuto l’ultima parola
Eppure da parte mia c’era stato un bisogno infantile di avere un padre e un mentore – la guida -, e lui aveva saputo coglierlo e usarlo. E via con richieste di incontro disattese, calunnie, senso di smarrimento, odio verso il destino che mi aveva illuso tendendomi una trappola. Pausa. Mesi d’attesa. Malattia. Debilitazione fisica e mentale. Senso di fallimento e nullificazione, espressi negli atti dell’espulsione ottenuti con innumerevoli pellegrinaggi burocratici e pubblicati col gusto dello sfregio. Una gara, per altro vinta, al suicidio accademico. Ritorsione temuta sul mio lavoro di ricerca e giunta, con l’aggravante dell’artiglieria del baronato universitario ben stretto nei ranghi, durante il passaggio al mio terzo anno. Litigo con il sabotatore interno e arrivo a una rottura con l’idea che mi ero fatta del futuro. Le fasi sono poche e definitive. Persisto. Nella testa non mi parlo e non gli scrivo. Estendo il livore al corpo – mi ammalo –, al mio uomo e al pezzo di famiglia rimasto. Rompo tutto. Identifico nemici fra quelli che credevo compagni. Da quel momento smetto di credere che il tempo debba essere investito nella formazione. Da quel momento il mio tempo devia, alla ricerca del modo in cui vivere. La vita esposta e svenduta come dentro un outlet intellettuale, nella maggior parte dei casi di cattivo gusto, come le cravatte del mio nuovo capo e il guardaroba della sua superflua moglie. Ciò che per me è importante lo tratto così, in modo accidentale. Ho imparato a mettere una distanza tra il mondo e il mio mondo, per avere lo spazio di aprire e chiudere la porta. E quando mi ritorna in mente il sacrificio necessario a mantenere viva l’impressione di seguire una strada su misura per me, è ancora una sensazione che mi sporca. Come se mi fossi data via per molto meno di quello che mi paga il boss. Il boss, in fondo, mi retribuisce solo per fingere di essere una specie di cameriera tuttofare. Il potere… strana questa parola che apre possibilità inimmaginabili, a pensarla mi fa ancora un certo effetto. Sbagli strada e ti accorgi di essere passata per la terza volta davanti a quella tabaccheria col cactus davanti. L’ambizione è una specie di culto che ti fa desiderare di faticare per ritrovarti al punto di partenza. Soltanto più vecchia, stanca e avvitata nel cinismo. Ho ancora paura di perdere la libertà. Quella di pensare senza censure. Come voglio e per quanto tempo mi pare. E siamo arrivati. Posteggio e comincio la recita.
La luce del crepuscolo si era sparsa dentro l’auto, improvvisamente. Tra le nuvole si era aperto un varco. Tacquero rassicurati. Le regole del caos vogliono che il disordine continui.