La coppia che trasforma il dissenso in arte

Tutto è cominciato durante una passeggiata invernale di Tellervo Kalleinen (Lohja, 1975) e Oliver Kochta-Kalleinen (Dresda, 1971) in Helsinki, scrivono sul loro sito.


Forse fu dovuto al giorno particolarmente gelido, ma finirono per discutere della possibilità di trasformare l’enorme energia, indirizzata dalla gente nel lamentarsi, in una operazione decisamente diversa. Magari non proprio in “calore”. Tuttavia in qualcosa di potente. Nel vocabolario finlandese c’è un espressione “Valituskuoro” che significa Complaints Choirs , ovvero”Coro di Reclami”, ed è usata per descrivere situazioni in cui un gran numero di individui si lamentano contemporaneamente. Kalleinen e Kochta-Kalleinen pensarono quindi: «Non sarebbe fantastico seguire quest’espressione alla lettera e organizzare un vero e proprio Complaints Choirs!”.
Siccome il reclamo è un fenomeno universale, il progetto si sarebbe potuto organizzare in qualsiasi città e in ogni parte mondo.
Ma fu solo dopo la presenza allo Springhill Institute di Birmingham che il primo Complaints Choir è diventato realtà. Birmingham (a qualcuno noto come il “buco del culo d’Inghilterra “) era un posto ideale per iniziare il progetto, giustappunto per la sua estrema perifericità. I partecipanti — trovati attraverso volantini e locandine — capirono in quale modo agire istintivamente.
Un musicista locale — Mike Hurley — trasformò le denunce in un motivo orecchiabile. In due settimane il brano fu provato alla perfezione da parte dei partecipanti impegnati nel progetto, nonostante il fatto che solo pochi fra loro fossero davvero in grado di cantare. Nacque un vero e proprio hit — con un coro difficile da fare uscire dalla mente: “I want my money back …” —. Dopo il Complaints Choir di Birmingham, il progetto relazionale è diventato un successo a sorpresa e Kalleinen e Kochta-Kalleinen sono stati invitati ad avviare “Cori di reclami” in tutto il mondo, compresa l’Italia. La “declinazione” milanese del progetto fu realizzata per le strade della città nel 2009, in collaborazione con la casa di produzioni musicali The Tune e con la partecipazione di circa quaranta cittadini, che diedero vita al “coro dei lamenti di Milano”. Dopo Birmingham i coniugi Kalleinen hanno organizzato workshop ad Helsinki, San Pietroburgo, Amburgo- Wilhelmsburg, Chicago, Singapore, Copenaghen e Tokyo.

I due hanno documentato tutte le fasi di Complaints Choirs e da allora presentano films e video, formati da scene girate in base alle fantasie e ai desideri delle persone che scelgono diprestarsi, rispondendo e aderendo agli inviti pubblici lanciati dagli. Dal momento che il successo del Birmingham Complaints Choir su YouTube è divenuto planetario, anche grazie a una forte attenzione della stampa, i Kalleinen hanno ricevuto numerose lettere in cui le persone descrivono il loro bisogno di cantare il loro dissenso. La capacità limitata dei due artisti di soddisfare necessità così urgenti e numerose li ha portati ad aprire un sito e incoraggiare le persone a formare il loro personale Coro di reclami. Nel frattempo diversi cori di denunce sono stati avviati da altre persone in tutto il mondo.
Autori di progetti complessi e ironici, basati sulla collaborazione e sulla partecipazione di gruppi di persone “reclutate” tramite il principio dell’open call, i Kalleinen coinvolgono pubblico casuale nella produzione di situazioni che inscenano assurdità, fantasie e timori del quotidiano più stretto, e che culminano, in fine, nella realizzazione di film o video di valore anche sociologico. Per questo motivo i loro progetti hanno una struttura aperta e si svolgono in un lungo lasso di tempo. Molto spesso queste iniziative creano una vera e propria bolla di consapevolezza, che matura e sedimenta dopo anni di lenta permeazione, all’interno di un territorio culturale esteso. A proposito di questo tema dello slittamento dal manufatto verso il processo condiviso, quindi di matrice concettuale e performativa (task performance, ossia un’azione che persegue uno scopo), è molto interessante proprio l’operazione di ingaggio e archiviazione in progress dei coniugi Kalleinen. I progetti Complaints Choirs (dal 2005, in progress), In the middle of a movie (2001-2004) e Dreamland, Tarja in Wonderland (2009), presentati come video-installazioni, sono tutti basati su questo processo. Che cosa sognano i finlandesi quando pensano al proprio Presidente della Repubblica? Di che cosa si lamenta la gente nel quotidiano, alle diverse latitudini del mondo? Che film vorresti che fosse interpretato nella tua casa?
Dimostrando come temi seri possano essere affrontati con grande humour a partire da truismi, nel loro lavoro i Kalleinen portano allo scoperto le relazioni che le persone intessono all’interno degli spazi pubblici e privati (familiare, lavorativo, cittadino, nazionale), costruendo archivi di situazioni talvolta paradossali in cui tali relazioni sono fatte oggetto di ironica rappresentazione. L’ambito della produzione che sta sotto la macro etichetta di Arte pubblica resta comunque di complessa identificazione, in primo luogo per l’esigenza di ravvisare il destinatario dell’operazione estetica, con una scelta di ordine culturale che sia anche universalistica. Le variabili e le probabilità di riuscita sono imprevedibili, per la problematicità di coinvolgimento dei soggetti e per l’esigenza di fare assumere a ciascuno di loro un ruolo attivo.

Dopo aver invitato in Italia per la prima volta i Kalleinen in occasione del progetto Time Code al MAMbo di Bologna nel 2008, le curatrici Alessandra Pioselli e Fabiola Naldi avevano scelto di organizzare la mostra nella galleria milanese ARTRA nel 2010, come fosse una piccola antologica, essendo il lavoro dei due artisti poco conosciuto in Italia.

Io non sono l’amore: Pippo del Bono al Teatro Valle di Roma

Roma, correva domenica 13 novembre, è trascorso un po’ di tempo, e Pippo Delbono aveva incontrato il pubblico del Valle Occupato per aprire una riflessione e un dialogo sui nuovi linguaggi del cinema e dei media visivi. Per l’occasione ha presentato il suo ultimo film “Amore Carne”, quest’anno già alla Mostra di Venezia nella sezione Orizzonti.
Nel corso dei suoi viaggi, la piccola camera, o il telefonino, di Pippo Delbono ha scorso momenti intimi e paesaggistici, incontri privati ― con la madre, soprattutto ―, ordinari o eccellenti.
Da una stanza d’albergo a Parigi a un’altra di Budapest, i percorsi intrecciano un tessuto del mondo contemporaneo, con un’elegia sospesa e una eterodossia talvolta faticosi e macchinosamente retorici. Insieme a questi testimoni (volontari e involontari) del tormento di ventidue anni di sieropositività, del viaggio, del paesaggio, della madre e del suo ruolo iterativo e straziante (e ora ti prego di non volere morire mai, mai, mai,…), si avvicendano presenze forti e marginalizzate; infermiere, ballerine, attrici, artiste, clochard, che dicono o danzano la loro sfera privata e creativa.
Dopo La Paura, film portato a Locarno nel 2009 e interamente girato con un cellulare, ancora un telefonino come strumento ― ma questa volta c’è anche il supporto di una telecamera ― del nuovo viaggio cinematografico firmato dall’attore-ballerino e regista.
“Amore carne” è un film prodotto assieme a Cinémathèque suisse e Casa-Azul .
Protagonisti: Bobò, Irène Jacob, Marie-Agnès Gillot, Margherita Delbono, Sophie Calle, Marisa Berenson, Tilda Swinton e lo stesso Pippo Delbono. Un esperimento visivo epico, che torna, nei suoi momenti conclusivi e anti narrativi, a riassumere l’incipit sotto la spinta emotiva della morte di Pina Bausch.
Intervallando testimonianze a testi poetici (Arthur Rimbaud, Pier Paolo Pasolini, T. S. Eliot), luoghi e volti, il film si configura come un collage di visioni soggettive sincopate, sull’orlo di un collasso o di un’eccessiva retorica del soggetto narrante.
Ed è in nome di una ferita (fisica e metaforica) che, con molta probabilità, emerge questa visione ossessiva, personale e oltremodo lirica, che Delbono porta in primo luogo nel suo occhio offeso e nel suo corpo malato. Come quando, con le dovute distanze, Fitzgerald o Lowry parlano di questa incrinatura metafisica incorporea, quando vi trovano il luogo e l’ostacolo del loro pensiero, la fonte e il prosciugamento, il senso e il non senso. Perché poi la protagonista indiscussa del lungometraggio è la musica di Alexander Balanescu e il suo violino. Ciò non di meno, se alla tragedia che aveva bisogno di Dio e Dei abbiamo sostituito il dramma, che è solo degli uomini e, peggio ancora, il caso che non appartiene a nessuna forza controintuitiva, Delbono ha avuto bisogno di tutti e tre i livelli per condurci al senso e al non senso del vivere. Certo chiedere a un artista disentirsi parte in virtù del bene comune, come è successo durante il dibattito al Valle Occupato, è pura illusione. Lui, l’artista, opera nella sfera della resistenza, facendo crescere l’ego, ancora di più con la disciplina; non puoi reclamare la sua rinuncia a se stesso. Offrigli un abbandono, quello sì; l’esercizio dell’abbandono coperto dalle tue braccia, dal tuo teatro, dalle tue gerarchie ammorbidite. Un precipitare e un precipizio: solitario. Sempre e comunque.
Pippo Delbono è considerato in Italia uno degli artisti teatrali più anticonvenzionali e particolari. Ha intrapreso gli studi teatrali in una scuola tradizionale, abbandonata dopo l’incontro con l’attore argentino Pepe Robledo , fuggito, quest’ultimo, dalla dittatura del suo paese e proveniente dal Libre Teatro Libre. Nel 1983 si è trasferito a Holstebro (Danimarca) dove è divenuto membro del gruppo Farfa diretto da Iben Nagel Rasmussen. Lì ha appreso le tecniche della danza orientale, approfondite nei successivi viaggi in India, Cina e Bali. Nel 1985 da questa collaborazione con l’attore argentino nasce anche lo spettacolo Il tempo degli assassini, che debutta in tournée in Sudamerica e in Europa. Lo spettacolo viene visto da Pina Bausch che invita Delbono a partecipare alla creazione di Ahnen: Delbono e Robledo rimangono quindi per un periodo a lavorare al Wüppertal Tanztheater, dando così avvio a un rapporto che continua tuttora.