Le fotografie sono documenti sociali (…) Sono simboli seri uniti nel caos più disparato (…) camminando con cautela così da non creare alcun disturbo nell’atmosfera tipica del luogo, il fotografo può essere considerato una sorta di occhio incorporeo nascosto, un cospiratore contro il tempo e le sue armi
Certe opere ti fanno sospettare che la critica non serva. L’ἐκϕράζω, il «descrivere con eleganza», non ha potere sulla memoria. L’arte sì. Chiaro, non può cancellarla, tuttavia non è escluso riesca a mistificarla con successo
Alla proiezione di Robert Frank Don’t Blink di Laura Israel (Canada, Francia, Usa 2015, 82′ english sott. italiano, circuito Wanted Cinema) si è chiarito il senso di una delle lezioni di Artur Aristakisyan — regista fra più importanti al mondo nonostante abbia appena due film all’attivo —, durante la masterclass romana dell’ottobre 2016, sull’opera Make love to me 4am. Aristakisyan aveva parlato del concetto di Grazia, forse come avrebbe fatto Flannery O’Connor: «In questa foto lei ha preso Dio», aveva detto. E qualcosa in questo docufilm ha aperto quella affermazione: il ‘prendere’ con sé Dio come un’icona — nella tradizione orientale ortodossa l’icona è parte di Dio, testimonianza vivente non mera rappresentazione. Una piccola teofania è così scivolata verso noi spettatori. L’interno della mela si è illuminato per mostrare, e nascondere di nuovo, la verità. Perché Robert Frank è un artista silenzioso, uno che «Preferisce stare sul bordo che camminare al centro della strada». Questo suo corpo a corpo con l’immagine, molto europeo, di presa in carico del reale senza illusione di realtà, stupisce. Un uomo schivo che non si separa dagli oggetti, che fa di una pietra, o di un pezzo di legno, un monumentum. Di più: uno che ha colto quella Grazia alla sprovvista. Perché questo privilegio della noncuranza sembra essere elargito con maggiore facilità agli umili. Scattare foto, inciderle, ristamparle, lavorarle in camera oscura con gli acidi, cogliere lo smarrimento, la solitudine, l’arroganza, la povertà e il lavoro assordante della fabbrica, gli ha permesso di creare una bolla di silenzio. Di prendere con sé il dono – l’attimo decisivo – e mostrarlo al mondo. Senza commenti né didascalie. In primo luogo nel libro Les américains (1958). Proseguendo per decenni con una serie di paesaggi intimi in polaroid annotate a mano
Con film sperimentali e un ininterrotto elogio di ciò che resta dello sguardo, quando raschi via il superfluo.