Dimenticanza e risarcimento come bene supremo

Sparire devo, | mi dicono, laggiù, | e spinta, non sparisco | ancora, voglio volare | una volta ancora sulla | terrazza. | Non ho taciuto | perché tacere è buono e bello, | non avevo più niente da dire. (Ingeborg Bachmann)

Contro la Purezza è un progetto che da qualche anno si muove fra arte, pensiero filosofico e riflessione politica. “Le partage (Des Voix)” è un capitolo in viaggio di questo lungo percorso che ha portato l’artista e performer Isabella Bordoni in diverse città italiane ed europee fra cui Rimini, Milano, Vienna e Berlino.

Le partage (Des Voix) è un’indagine sui temi del consenso e sul sentimento del tragico. Una ekphrasis organizzata attorno all’analisi delle fonti, che ricompongono l’infranto sul lascito storico del Novecento. L’intervento-installazione, seguendo un percorso multidisciplinare tra video proiezione e ambiente sonoro, indaga i sistemi di controllo attraverso gli spazi. Siano essi di detenzione o di ricovero coatto. Ospedali psichiatrici, campi di detenzione, carceri, questi ultimi sono quegli scenari evocati dove, al di là di ogni possibile previsione, è ancora pensabile superare la barriera dell’annichilimento e della privazione di sé. Restare in vita, è uno dei temi suggeriti, per diventare memoria storica e collettiva. Tutto ciò grazie agli unici attributi capaci di eludere la coercizione fisica e sociale: il pensiero e la parola. Un connubio in grado di originare   ove lo spirito critico e l’etica s’inabissano nel qualunquismo – una cifra poetica.

Ragioniamo quindi di un lavoro su pellicole originali, estratti dal processo contro Adolf Eichmann alla Casa del Popolo di Israele (1961), degli audio tapes di Hannah Arendt in merito allo stesso processo Eichmann, delle parole scritte dalla poetessa Ingeborg Bachmann, delle riflessioni di Walter Benjamin e Michel Foucault, nonché delle “Considerazioni inattuali” di Friederich Nietzsche. Riproduzioni su nastro magnetico e pellicole (ri)attualizzate, che collidono e fanno salire in superficie un idioletto estetico soffice, fluente dalle immagini al ralenti di voli, scene naturali e resti di abitazioni epurate dalla presenza dell’uomo. Con la voce di Bordoni che “percuote” la citazione; uscendo dal tempo, respirando le sentenze filosofiche in una piega di senso, ampliando con un tono, in apparenza neutro, le stesse frasi che scivolano dal paradosso del fantasma della voce su una zona obliqua dello spazio reale.

Le partage des voix è anche, e soprattutto, un testo di Jean Luc Nancy; uno dei più grandi studiosi delle tematiche del corpo in territorio estetico. Sicché, il motivo di questa citazione, resa maiuscola già a partire dal riadopero del titolo, è il valore dialogico da conferire alla “comunità che viene”: “La comunità inconfessabile” di Blanchot[1]. Forma linguistica e fenomenologica sullo stato del mondo al mondo. La poesia “aperta” alla ri-semantizzazione condivide l’urgenza di dare a questa parola raddoppiata un valore morfo-fonematico, la cui connotazione visuale è già significato, sia plastico-sensoriale che politico e culturale. Là, nella stanza dentro la quale la visione e l’ascolto si svolgono, la parol e il logos vengono indagati nella loro possibilità relazionale, e di conseguenza politica. Per la loro risonanza, e pertinenza, con la questione della responsabilità e della libertà. « Ogni volta che è in gioco il linguaggio », scrive Hannah Arendt: « la situazione diviene politica per definizione, perché è il linguaggio che fa dell’uomo un essere politico ». La sentenza compare nell’introduzione di Vita activa[2], un’opera che, secondo Habermas, non solo attesta la simpatia arendtiana per Aristotele, ma soprattutto supporta Habermas stesso nella convinzione che la democrazia trovi il suo principio più genuino nel linguaggio, in quanto medium intersoggettivo della comunicazione atto a regolare la discussione pubblica e a produrre l’intesa. Caratterizzato da una razionalità che è normativa e per tutti vincolante, ossia universale, il linguaggio costituirebbe così il legame degli individui in quanto membri della “comunità linguistica ideale” (Vincenzo Cuomo). La questione che Bordoni pone con il suo lavoro decennale, circolata ben oltre il cameo che l’artista ha regalato a Catania nel 2011, versa nel repertare il luogo (topos) simbolico dentro il quale affondano le radici del consenso e la temibile gestazione del pensiero unico. Uno stato di salute e di malattia la cui definizione oscilla tra il concetto e l’applicazione della “purezza” e, ancora, l’“incanto” per il mefitico volto della decontaminazione. Da qui l’altrettanto temibile manicheismo dei sistemi normativi che, di conseguenza, hanno autorizzato le derive del Novecento nazista, fascista e stalinista:

Nel marzo del 1980, tre settimane prima di morire, Sartre affermava: «Bisogna cercare di spiegare che il mondo di oggi, per quanto orribile, è soltanto un momento del lungo svolgimento della storia, che in qualsiasi rivoluzione o insurrezione la speranza è sempre stata una delle forze dominanti, e come la speranza rimanga la mia concezione del futuro».[3]

Può esistere un corso storico senza risarcimento?

Memoria e oblio come forma statutaria di un quotidiano rimescolamento implicano, al contrario, una nicciana legislazione della dimenticanza. La “Partizione delle Voci” è, dunque, un tessuto che si strappa, nell’attesa di un movimento assolutorio e pacificatore.

Eppure l’opera non culmina in apologia; giacché il dramma è aleatorio e soffocato dalla ripetizione e quindi non più recuperabile all’interno di una ideale partitura narrativa. La “crepa” poetica divarica in questa maniera gli orli di assetti sociali ed estetici divenuti in apparenza remoti.

Tuttavia, la stessa temperatura drammaturgica volta all’assurdo, è assimilabile al paradigmatico stato di narcosi che intride, in modo ciclico, periodi di confusione politica e fragilità economica. Quel cuneo che ci divide su una terra comune parla di Memoria come responsabilità storica (di un eccidio) e Necessità di stabilire una “regola dell’oblio” (H. Arendt, L’umanità ai tempi bui, Raffaello Cortina editore[4], 2006). Siamo invitati però ad abbandonare senza esitazione le fantasie di un risarcimento di sangue, a non indulgere nel qualunquismo e nell’indifferenza, perseguendo (come entità plurale) l’idea di una flagrante assunzione di responsabilità; rivolta a ciascun individuo. E di questa apocope della menzogna e della sua parabola politica parla, voglio qui menzionarlo, anche Derrida a proposito di Vichy (J. Derrida, Sull’arte della menzogna, Castelvecchi, 2005). Drammaturga, performer, poeta, Bordoni attua un métissage desunto dalle arti multimediali e dal teatro di realtà, più che mai in questo suo lavoro sugli archivi del Novecento e i paludamenti della sovranità nazionale, che autorizzava uno Stato e il suo capo a stabilire regole universalmente deprecabili. Condizione che pur tendendo alla comunità che “dovrebbe venire” realizza il suo stupore più alto sotto la pioggia della solitudine, rendendo l’idea di umanità « Una paradossale pluralità di esseri unici » (H. Arendt, ibid.). Qualità necessaria (quella della voce, forse come cascame della trascendenza) che inneggia alla libertà come bene supremo ed espunge i dissenzienti al pari di forme virali. Tutto ciò “avviene” nell’opera di Bordoni nell’arco di appena venti minuti di orazione civile. Meno di mezz’ora di innalzamento della coscienza. Laicità e lirismo che ci auguriamo continuino a lavorare i nostri pensieri nella loro strana grammatica sommersa e, grazie al cielo, impura.

BIO

Isabella Bordoni è poeta, autrice e interprete, artista visiva e sonora. Inizia il proprio percorso artistico nella seconda metà degli anni ‘80 all’interno della scena nord europea delle arti sceniche e elettroniche. Cura la drammaturgia, la regia e la direzione di lavori per il teatro, la radio, i media. Riceve commissioni da enti radiofonici europei, è presente in festival e rassegne di teatro, poesia, arte. Attenta alle poetiche dei luoghi e alla reciproca influenza tra l’organizzazione dello spazio naturale, architettonico e il gesto artistico, ha fatto di questi orizzonti materia di indagine con progetti artistici, cura e docenze. “Libertà come bene supremo_ giornate di osservazione e critica del contemporaneo” è il progetto permanente di riflessione intorno alle politiche della memoria e ai concetti e le pratiche che Isabella chiama di “cittadinanza poetica”. Concluso il progetto triennale Contro la purezza, che indagava le figure del consenso e le pratiche normative, ha avviato quest’anno il ciclo Refugee, riflessione ad ampio raggio intorno alle politiche e alle poetiche che rendono possibile la creazione di un’utopia nello spazio di relazione (del, e) tra corpo e paesaggio.

Le partage (Des Voix) nasce come una delle sei tappe che hanno composto il ciclo Contro la purezza e consiste in una installazione video in loop con proiezione di immagine e testo. Dal vivo è il mix del suono e delle voci, con materiali provenienti dagli archivi storici e voce dell’autrice. Fra i materiali sonori d’archivio, le testimonianze di Hannah Arendt, Ingeborg Bachmann, Adolf Eichmann. Le partage (Des Voix) come altri suoi lavori, può essere interpretato come “installazione” o “performance poetica” o “recital”, a seconda della familiarità che con i termini indicati ha il contesto che li ospita. A Catania si è svolto presso la Fondazione Puglisi Cosentino, il 14 aprile 2011, come intervento di live art; presente l’artista.


[1] « Fino a 31 anni Blanchot fu giornalista politico, collaboratore del “Journal des Débats” rivista di estrema destra, di cui diventerà anche Redattore capo. Influenzato dalla tradizione famigliare rigidamente cattolica, manifesta in questa fase simpatie monarchiche e auspica una sorta di rivoluzione spirituale nazionalista e anticapitalista. Tra il 1933 e il 1944 scrive oltre 200 articoli, collaborando anche a “Rempart”, a “l’Insurgé” a “Ecoutes”, e sarà uno degli animatori della rivista “Combat” fondata da Thierry Maulnier. Quando, durante l’occupazione, Drieu La Rochelle assunse la direzione della Nouvelle Revue Française, con l’assenso dei tedeschi, Blanchot ne divenne il segretario (dal marzo al maggio del 1942). Insomma la vicenda è chiara e in effetti lo stesso Blanchot non ha mai nascosto questo aspetto della sua esistenza, ma ha anche preso nettamente le distanze da esso negli anni successivi. Senza riuscire tuttavia ad evitare che si formasse un sospetto ingiustificato di antisemitismo. Quando nel 1975 la rivista Gramma pubblicò per la prima volta una bibliografia completa degli scritti giovanili di Blanchot, e riprodusse alcuni dei pezzi più violenti, si poté dedurre dai testi stessi che l’avversione di Blanchot per la Germania nazista contemplava anche la denuncia della politica antisemita di quel regime. Già nel 1933 egli infatti denunciava “le barbare persecuzioni contro gli ebrei” compiute dai nazisti. Nel 1992, tuttavia, la faccenda si riaprì con la pubblicazione su “Tel Quel” di un articolo di Jeffrey Mehlman che denunciava nuovamente l’antisemitismo di Blanchot. E Todorov sostenne l’accusa interpretando l’intera sua opera come chiusa e incapace di accogliere qualsiasi alterità. Entrambi tuttavia ignoravano volutamente gli scritti successivi alla guerra di Blanchot, e tutte le sue nette prese di distanza rispetto alla sua opera di quegli anni. Emblematica, d’altra parte, proprio in questo senso è la sua solida antica amicizia con Emmanuel Lévinas la cui famiglia soffrì l’Olocausto sulla propria carne: Blanchot stesso nascose la moglie e la figlia di Lévinas e le aiutò a mettersi in salvo fuggendo clandestinamente in Svizzera. Tuttavia a partire dal 1938 Blanchot cessa di scrivere articoli di carattere prettamente politico per dedicarsi essenzialmente alla critica letteraria.[…] Nel 1941 incontra Georges Bataille col quale stringe una profonda amicizia. Tramite Bataille, nel corso della guerra si avvicina agli ambienti della resistenza (Antelme, Duras, Mascolo) e del PCF, pur continuando a scrivere per riviste vicine alla Francia di Petain. Certo il Blanchot che esce dalla guerra è un uomo molto diverso da quello dell’epoca precedente. Gli anni ’40 e ’50 sono dedicati essenzialmente alla scrittura di opere narrative e critiche. L’impegno politico ritorna solo nel 1958 quando Blanchot manifesta pubblicamente il suo rifiuto nei confronti di De Gaulle. Nel 1960 è uno dei redattori del “Manifesto dei 121” contro la guerra d’Algeria. In questa occasione egli concede alla rivista “L’Express” l’unica intervista di cui si abbia notizia (e che, paradossalmente, non fu mai pubblicata). Il ’68 vide Blanchot partecipe ma in forma anonima, alle manifestazioni. Insieme a Dionys Mascolo fu uno degli animatori del Comité d’action étudiants-écrivains. Nel maggio del ’68 conosce il giovanissimo Derrida ed ha inizio un profondo sodalizio intellettuale. Negli anni successivi la questione politica assume per Blanchot i contorni della fondamentale riflessione intorno alla comunità, che porta a quel breve testo, per molti versi eccezionale, La comunità inconfessabile del 1983 ». (http://www.riflessioni.it/enciclopedia/blanchot.htm)

[2] Vita Activa. La condizione umana (1958) descrive le tre condizioni dell’esistenza; condizioni fondamentali per capire la “antropologia” harendtiana. Esse corrispondono all’ambiente naturale degli individui. La Terra, e quindi l’attività del lavoro, è rappresentata dall’ animal laborans; la seconda condizione è quella dell’ homo faber, ovvero l’insieme di artefatti di cui l’uomo si circonda per vivere e operare nel mondo; la terza è lo spazio pubblico in cui gli individui interagiscono mediante il discorso, l’attività corrispondente è, per l’appunto, l’agire. Le tre attività compongono la “vita activa”.

[3] Jean-Paul Sartre, Maintenant l’espoir…(III), in « Le Nouvel Observateur », 24 marzo 1980, citato in Indignez-vous! Di Stéphane Hessel, Indigéne édition, 2010; traduzione italiana di Maurizia Balmelli, Add editore, Torino 2011, terza ed., p. 25.

[4] Il testo della grande filosofa fu pronunciato il 28 settembre ’59 del secolo scorso, come discorso in occasione del conferimento del premio Lessing. Si trattò del primo riconoscimento ufficiale per colei che resta famosa soprattutto come autrice de « La banalità del male ».

Il corpo-Tomba di Maria Pia Ammirati

Maria Pia Ammirati – Le voci intorno – Cairo Publishing, Milano 2012 L’argomento è la morte e nella fattispecie la forma che essa assume per il tramite di un incidente d’auto. Si tratta di morte nelle sue prove corali e familiari, a diversi gradi d’incidenza; in quanto taluni muoiono mentre la protagonista finirà in coma. Nondimeno il tema e la tesi che il fulmineo romanzo di Maria Pia Ammirati porge è affatto tragico, in quanto non ci sono sacre soglie da varcare (la tragedia, infatti, al contrario, consta di un confronto mal riuscito con il sacro), ma rapporti da situare e spiegare. Già in Se tu fossi qui, edito anch’esso da Cairo (2010) e vincitore nel 2011 del Premio Selezione Campiello, Ammirati aveva condotto quello che alla luce di quest’ultimo Le voci intorno suona quasi come una sorta di prequel. Alice è la diciassettenne che apre la storia nel suo punto medio; un attimo prima dell’accelerazione e dell’incidente automobilistico. Scritto in soggettiva comincia nel sudore e nel distacco, al centro delle liturgie del sabato sera. Alcol, pasticche ed eros diffuso. Dentro Alice c’è una strana compostezza, lo si intuisce dal suo modo di esplorare l’intorno, che Ammirati ricalca con sicurezza, seppure nella tentazione di abbracciare la pluralità linguistica dello slang adolescenziale. Il futuro di Alice sta appeso al corpo e si avvita in un rapido presagio. Quel corpo, insieme a quelli di Beppe e Marta, si prepara a essere escluso dal mondo d’un balzo. Ammirati ha una potente misura di corpi. E avvince nella distanza dal melenso e dal lirico di genere. Accarezza i suoi personaggi e non li imbriglia più del dovuto nel contesto; sicché ce li porge parziali, nitidi e, in fondo, inaccessibili: «Mi accorgo di essere sveglia dai rumori, e da questo bagliore che filtra dagli occhi, però non riesco proprio a calcolare il tempo: quanto dormo, quanto sto sveglia, se è notte o giorno; e così per capirlo devo aspettare mio padre […] per riuscire a dormire avevo sperimentato vari metodi, oltre il ticchettio; in genere ripassavo i fatti della giornata, e il sonno mi coglieva durante questo ripasso […] Ma anche un altro metodo era efficace: pensare ai miei vestiti, a quelli più belli, a quali mi sarebbe piaciuto avere, a quali scarpe, come quelle di Marta, che l’altra sera erano bellissime. Chissà che fine avranno fatto, e chissà dove vanno a finire le scarpe dei morti?». Questi corpi immessi in spazi esigui e slabbrati, parcellizzati nella narrazione perché dispieghino le loro metamorfosi: la pelle che si assottiglia, il mestruo da tamponare, l’adipe che deborda. Tutto ciò con una sorta di distanza mista a decoro: che si tratti di schianto e lamiere o di stato vegetativo permanente. I legami che intercorrono fra i personaggi si stagliano concisi, nelle pieghe della manutenzione degli affetti, che il dolore per il coma costringe a ridefinire. Da una storia così si sarebbe potuti arrivare senza deviazioni al monstrum dell’eutanasia, mentre lo si costeggia e lo si doppia con delicatezza. Dopo l’anossia dovuta all’urto che le ha compresso i polmoni, Alice scivolerà in una incoscienza lunga due anni; il suo ragazzo (Beppe) è morto, la nuova amica (Marta), colpevole di una smargiassata conclusa in urto fatale, anche. Mentre il padre e Aurora, sorella minore di Alice, dovranno ricomporre ciò che resta, attorno al suo simulacro che piange dentro e perde di continuo il tempo. A loro tocca il rammendo paziente di una vita comune, smantellata dalla recente morte della madre. Attenzione e resistenza, fiati e conversazioni – “le voci intorno” del titolo – rivolti alla gravosa precisazione della speranza sul motivo del «fulmineo risveglio» e sull’esigenza di disincarnare il dolore; diluendolo, appunto, nella certezza della guarigione. E tutto questo contribuisce a produrre un prezioso dramma civile, ché Dio sembra un astratto furore; algido e lontanissimo. Lo stile di Ammirati tratta le azioni, quelle che appartengono alla sfera dell’intreccio, esplicitandole a partire dall’assenza di architetture narrative. La realtà si spacca e cede a una erosione interna. La scrittura è tersa e veloce, intanto che ripensa la tramatura di una famiglia tarata sulla volontà di aggirare incomprensioni e asprezze; ingenerate, queste ultime, in primo luogo dalla malattia della madre. Così, piccoli vincoli affettivi rinchiusi nell’istituzione ospedaliera evolvono; si chiariscono, recuperando una via parallela alla comunicazione e una forma di sopravvivenza nuova, avvinta proprio al racconto. E precisamente a un diario che diviene elemento meta narrativo; a volere dimostrare che se si scorgono le parole giuste vi è rimedio anche sul piano della realtà. Larvatus prodeo, diceva Descartes (R. Descartes, Cogitationes privatae [1619] ), per procedere dentro i segreti della natura è necessario velarsi. Alice frattanto ha la sua fabula muta; obbligata a farsi testimone di sé, sepolta nell’anima cadavere semi pietrificata. ttusa nel corpo tomba che la vincola e dal quale vorrebbe, a un certo punto, prendere congedo; contro il corpo figura «tutto fuori» e «tutto per gli altri», che quegli altri tengono fermo, in vita, in relazione d’appartenenza. Ammirati tenta una sorta di eudaimonia: un distacco felice dalla realtà evenemenziale, dalla morale, dal sistema-paese e dai suoi farisei. Di fatto da ogni parvenza di giudizio radicale. Alice tornerà fra i viventi; toccata dal fuoco e quasi inservibile, quanto necessaria a normalizzare il corpo-cibo di Aurora e a diminuire la tristezza consustanziale del padre. Verosimilmente per effetto dell’amore e con molta probabilità come conseguenza di una direzione ostinata e sorda alla causalità scientifica. Un finale periglioso per quei dilemmi veri e crudi che appartengono agli oppositori dell’accanimento terapeutico. Uno zelo freddo, etico e medico, quello che spesso si consuma sulla pelle di chi resta e deve interpretare un volere, quello del malato, fattosi irrilevante, prendendosene carico per intero. Ma la morale non s’attaglia all’arte, lo sappiamo, e Ammirati in tal modo tiene strette le briglie della sua storia, che ci porta con sé verso un finale di sollievo.

Viaggiare dentro

Io non so so andare in bicicletta, però conosco uno scultore di libri canadese.

Sto spesso da sola e viaggio di frequente senza compagnia. I libri mi accompagnano, mi proteggono e soprattutto mi aiutano.

Nel 2008 andai a Como come visiting curator in una nota Fondazione. L’approccio fu tutt’altro che cortese, nonostante la senior curator mi avesse presa sotto la sua ala. Così, trascorsi la prima settimana del mese che mi aspettava a piangere, chiedendomi cosa ci facessi là. Oltre alle otto ore di lezioni in inglese, i complessi rapporti fra board curatoriale e i ventidue artisti provenienti da tutto il mondo, avevo da portare a termine la redazione di ottantaquattro schede d’artista; per un ponderoso catalogo d’arte contemporanea. Quest’ultimo doveva essere — pensate un po’ — il mio battesimo del fuoco, l’ultima tappa per entrare una volta per sempre nel piccolissimo mondo della critica d’arte stringente e sexy. Avevo pochi momenti di svago, sicché durante uno di quelli, decisi di seguire un consolidato rituale: andare in una piccola libreria locale, a farmi consigliare dal responsabile il libro che lui o lei ritenevano il migliore del momento. Mi aveva salvata la medesima prassi durante un rocambolesco e mal riuscito trasloco a Milano, quest’ultimo mi aveva permesso di conoscere La lezione di Barney di Mordecai Richler. Tuttavia, l’abitudine l’avevo coltivata fin dai tempi dell’università e del mitico incontro con Gregorius S., indimenticato libraio bolognese passato, da poco più di un anno, a miglior vita. Como mi regalò Goliarda Sapienza e L’arte della gioia, il miglior Nobel non consegnato della storia della letteratura italiana. Un virus benefico dal quale non è necessario guarire

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Bomar Remix

BOMAR REMIX

ANNE TANIA GIUGA INTERVISTA MARCO BOLOGNESI

 

Marco Bolognesi (Bologna, 1974) è artista e film maker e le sue opere, che hanno presto attirato l’attenzione di collezionisti e media italiani e internazionali, sono presenti in collezioni pubbliche e private.

Marco Bolognesi – Oko-Okou – 2008 – Lambda Print su Plexiglass+DiBond – 206x 125x 0.7 cm

Giustizia e Verità (1994) e Il partito del Silenzio(1996) sono i suoi primi video; in questi lavori la musica e le immagini si intrecciano mettendo in risalto tematiche sociali e politiche. I suoi video vengono presentati prima al Giffoni Film Festival e poi alla Biennale di Venezia. Nel 2003 vince il premio Artist in Residence all’Istituto Italiano di Cultura a Londra e realizza, in collaborazione condesigner di fama internazionale, il progetto e il libro fotografico Woodland. Nel 2008 Bolognesi gira il cortometraggio Black Hole, che vince il premio miglior film fantascientifico all’Indie Short Film Competition in Florida. Nello stesso anno la foto Redandwhiteeyes entra a far parte diExperimenta, la mostra itinerante organizzata dal Ministero degli Affari Esteri e poi della Collezione Farnesina, la collezione permanente del Minsitero. Dark Star(2008) è il secondo libro fotografico dell’artista. Nel 2009 Einaudi pubblica Protocollo, la graphic novel che segna il primo passo della collaborazione con Carlo Lucarelli. Nello stesso anno alla Fondazione delle Arti “Solares” di Parma Marco Bolognesi presenta l’installazione Genesis, che si concentra sul tema della creazione e della mutazione delle identità. Nel 2011 l’artista espone a Difforme, la mostra presso l’Archivio delle arti elettroniche dell’ Università degli Studi del Molise, che raccoglie opere di alcuni dei principali artisti contemporanei. L’opera più recente di Marco Bolognesi è l’installazione Mock-Up, presentata all’interno dell’Istituto Europeo di Design di Milano, in occasione di Invideo 2011.

 

Quale metodologia artistica segui dal concepimento alla realizzazione dei tuoi progetti?

Il concepimento di un’opera ha solitamente una prassi ben strutturata. I tempi invece variano molto, visto che dipende anche da cosa sta succedendo attorno me; mi riferisco sia alla vita quotidiana che ai temi che sento più vicini alla mia sensibilità. Solitamente, un progetto si genera nel momento in cui ne sto concludendo un altro, e quest’ultimo diventa una sorta di erede del precedente. C’e’ in me una necessità quasi andrenalinica della creazione. Ogni progetto diventa un tassello del Bomar Universe, il mio “Mondo”, che rimane l’opera più grande in cui sono costantemente impegnato, un work in progress perpetuo. In seguito, comincio a sviluppare una serie di disegni molto semplici per visualizzare un’idea, un pensiero. È questa la fase in cui mi dedico a una profonda ricerca iconografica per quanto riguarda la documentazione di repertorio, scavando in quelle che sono le mie principali passioni: il fumetto, il cinema, la storia, gli action toys e affini. A questo punto, chiariti gli orizzonti, affronto la produzione.

Quanto ha inciso la tua biografia (famiglia, studi, incontri, necessità/vantaggi) sul tuo lavoro?

 Incide sempre tanto, perché comunque è una traccia che tu lasci e in ogni caso credo profondamente che gli incontri non siano mai casuali.

Preferisci l’idea di un successo immediato e travolgente, o un lavoro sottotraccia che promettesse di durare oltre la tua stessa permanenza nel mondo?

 È un quesito che non mi pongo. Conosco solo il lavoro quotidiano e la ricerca costante.

 

Se dovessi insegnare a un giovane artista, che ha scelto la fotografia come mezzo espressivo, cosa non dovrebbe “fare mai”, che consiglio gli daresti?

 Non dovrebbe mai fotografare quello che vede, ma quello che sente.

La fotografia d’arte, come quella di cronaca, testimonia, comunque, un certo grado di adesione ai paradigmi di realtà e la propensione di una volontà quasi tirannica esercitata — soprattutto nel tuo caso — sul corpo delle modelle. Cosa puoi dirci in merito a questo modus operandi?

Nessuna volontà tirannica! Si tratta di una ricerca precisa e di un profondo amore per il corpo femminile. Lo studio parte dal collage, come forma di decontestualizzazione, per attribuire all’immagine un differente valore semantico. La realtà non è altro che un punto di vista .

Marco Bolognesi – The Consacration Of Silence – 2011 – Lambda Print su Plexiglass+DiBond – 125x187x 0.7 cm

 Nelle tue costruzioni opti spesso per quello che il semiologo Greimas chiamava l’espediente “intra diegetico”. Ossia l’elemento di camuffamento esplicito (sulla pelle delle tue modelle), prodotto nella mise en scène del set. Perché?

 Io creo sul set un lavoro molto più simile a una performance. Nel senso che incollo gli oggetti fisicamente sulla pelle delle modelle, producendo un intervento di collage fisico. Tutto questo seguendo metodologie costanti, quasi dei veri e propri rituali preparatori. A me interessa modificare la forma iniziale dei corpi e della scena, ridando a essa un’altra identità, molto più prossima a quella che sento che a quella che notoriamente si definisce ‘il visivo’ puro. La ‘realtà’.

Quale tecnica prediligi: digitale, analogico. Video, fotografia?

Sinceramente non è la tecnica usata che mi porta a realizzare i miei progetti. È il risultato finale a guidare le mie scelte tecniche. Certo, ho un interesse specifico orientato al racconto e, sicuramente, col tempo mi indirizzerò più verso un linguaggio filmico. Così il video giungerà ad avere un ruolo primario.

Hai vissuto a lungo in Inghilterra, trasformando te stesso in una formidabile “macchina da guerra”, almeno in senso professionale. Credi che in Italia resista una sorta di visione romantica? Ovviamente mi riferisco al fatto che gli ultimi anni hanno trovato la cultura italiana sempre più surrettizia e marginale, rispetto al grande “mondo mercato” che ci circonda. Pur non essendo dell’idea che “mercato” e ricerca estetica possano stare sulla stessa linea di confine. Cose ne pensi?

Si ho vissuto in Inghilterra, per la precisione a Londra e per dieci anni. Durante gli ultimi quattro anni londinesi ho creato uno studio, del quale, scherzosamente, parlo come “una macchina da guerra”, perché eravamo attivi su molti fronti. Io vedo l’artista come un comunicatore all’interno della società contemporanea, quindi indirizzato a utilizzare tutte quelle tecniche di diffusione che partono dalle vie tradizionali fino ad arrivare a quelle più innovative, come i social networks. Per quanto riguarda l’Italia non credo abbia una visione romantica più di quanto non ce l’abbiano altri paesi, ma sono convinto che tenda a chiudersi troppo in se stessa e nel proprio passato.

Quali sono i tuoi prossimi progetti espositivi?

Le prossime esposizioni dovrebbero delinearsi tra Italia, Austria e Inghilterra, che sono i luoghi dove ho recentemente portato il mio lavoro. All’inizio del prossimo anno dovrei ritornare anche negli Stati Uniti. A maggio sono stato invitato a “Fotografia Europea”, una fra le mostre ufficiali dove esporrò il mio ultimo progetto:Humanescape. Ancora, a ottobre dovrei esporre a Vienna, là ho vinto un Art in Residence e in quest’ultimo caso svilupperò un video con dei performers del teatro Brut di Vienna. Sempre a ottobre inaugurerò anche la mia personale alla Galleria Bonioni e, in quell’occasione, presenterò un nuovo libro fotografico e la conclusione del progetto che ho realizzato sul mondo orientale, che avevo già affrontato con Geiko. Mentre a Londra dovrei essere di nuovo in mostra a fine anno.

Marco Bolognesi – Beauty Mix 2 – 2005 – Lambda Print su Plexiglass+DiBond – 125 x 175 x 0.7 cm

Da poco è scomparso il grande scrittore e saggista Cristopher Hitchens. Egli, nel suo saggio “Consigli a un giovane ribelle” (Einaudi Stile libero, 2008) scrive: «Guardati dall’irrazionale, per quanto seduttivo. Diffida della compassione; preferisci la dignità per te e per gli altri. Non aver paura di essere considerato arrogante o egoista. Non essere mai spettatore dell’ingiustizia o della stupidità. Cerca la discussione e la disputa per il piacere che ti dànno; la tomba ti offrirà un sacco di tempo per tacere». Polemico e critico, intenso e ironico, Hitchens intesse una meditazione arguta su cosa significhi pensare, vivere, opporsi. Cosa ne pensi?

Ho sempre combattuto, nel mio piccolo contro le ingiustizie e non ho mai avuto timore di quello che potevano pensare terzi ma è anche vero che la figura dell’artista dovrebbe sempre porsi con sguardo critico.

Qual è l’ultimo libro che hai letto?

Al momento sto rileggendo la Trilogia di Valis di Philip Dick

Cosa ti aspetti dal tuo futuro artistico e professionale e cosa pensi del grande interesse che negli ultimi anni ha investito la fotografia d’arte?

 Sinceramente non inizio un lavoro nutrendo molte aspettative. Il mio più grande interesse è creare il mio universo e confrontarmi con il mondo in cui vivo. Sono molto felice dell’interesse che attualmente investe la fotografia d’arte in genere e, soprattutto, il mio lavoro, che negli ultimi anni è cresciuto molto. Eppure credo che non sia altro che la normale conseguenza di un impegno estetico costante che porto avanti da venti anni.

 

 

Marco Bolognesi (www.marcobolognesi.co.uk) è nato a Bologna nel 1974. Vive e lavora a Londra.

 

Bazan, il viaggiatore urbano

C’è Palermo in Moderna, la personale museale che consacra Alessandro Bazan alla sua città, al suo vespro, ai suoi fumetti d’avventura e alla sua anima orientale. Francesco Gallo Mazzeo, curatore della mostra, ne scrive come di un cantore ottocentesco, o un viaggiatore urbano, e non sbaglia. Il catalogo, e solo quello, ritrae le gradi tele in bianco e nero, quasi per essere fedele al titolo che si torce a ritroso e, precisamente, occhieggiando l’atmosfera ufficiale di un omaggio in patria; vissuto quasi in senso parodistico. Parodia del museo e dei suoi tanti equivoci. «Il museo, afferma Brian O’Doherty, si riduce a un White Cube il cui potere è quello di sopravanzare la percezione dell’arte stessa, producendo un bizzarro ribaltamento in cui gli stessi oggetti artistici introdotti nello spazio dell’esposizione sono chiamati ad ‘incorniciare’ la galleria e le sue leggi», scrive Michele Costanzo in un breve saggio dal titolo esplicativo: La musa inquieta. E ancora: «Diversi sono gli esperimenti realizzati durante il secolo trascorso che meritano di essere richiamati alla nostra memoria: finalizzati a rompere questa sorta di ‘prigione’ in cui il museo moderno si è rinchiuso credendo di costruire un proprio rifugio».

barelylegal_1Esperienza o interpretazione
Moderna è stata inaugurata il 16 marzo e finirà il 30 aprile. La personale avrà come scudo, o meglio come scenario Ostranenie, defamiliarizzato, proprio il realismo dell’Ottocento. Un tema flagrante perché la Storia, quella con la “S” maiuscola, non procede in linea retta, come aveva capito Wassilly Kandinsky prima e Nicolas Serota poi, il per la Tate Gallery di Londra seguì un modello allestitivo e curatoriale provocatorio, dall’andamento tematico, piuttosto che la consolidata strategia cronologica e progressiva. Serota inExperience or Interpretation (trad. it. Esperienza o interpretazione. Il dilemma del museo d’arte moderna, Kappa, Roma 2002) riattualizza la lezione di Kandinsky, che indicava di lasciarsi guidare dalle analogie suscitate dalla pura fenomenologia formale, tecnica ed espressiva, dei materiali artistici a disposizione, o di basarsi sui caratteri propri delle diverse rappresentazioni, evitando lo schema delle periodizzazioni e delle scuole. Il curatore propone ciò che in parte, e non saprei dire in quale misura con una volontà precisa, ha generato una sorta di cortocircuito vivificante tra Moderna e l’Ottocento pittorico e scultoreo esposto nel percorso principale della GAM.
L’arte e la critica devono darsi questo obiettivo: una continua attualizzazione del passato, attraverso fili intrecciati in modo reticolare e discontinuo.

barelylegal_2La lente rovesciata
E Bazan rivisita, fra le altre cose, l’immaginario filmico mediante la lente rovesciata dell’inconscio ottico; qualcosa di noto, che appartiene all’epicentro delle nostre visioni, eppure non possiamo più attingervi se non per eco. D’altronde, anche la naïveté filologica occupa la sua parte nei dipinti dell’autore, e inerisce la pittura stessa nel suo specifico esecutivo, nelle sue pennellate esibite e nelle sue cromie. Egli non vuole rompere con la tradizione quanto rigenerarla, così riprende, infatti, il Funerale a Ornans (1849-50), detto anche Quadro di figure umane, di Gustave Courbet. Nell’enorme tela di Courbet è stato ritratto un folto gruppo di persone che si estende ipotatticamente per l’intera superficie orizzontale del dipinto, mentre Bazan lo trasforma in un’arringa: una folla disciplinata intenta ad ascoltare un leader.
Bazan cita, ancora, Les Bagneuses, le bagnanti come tropo, figure care a tutta la tradizione pittorica dell’esotico e del lontano, per l’appunto ottocentesca, e le immerge in una selvatichezza acida prossima al film Zabriskie Point (1970) di Michelangelo Antonioni. I suoi corpi filanti e insieme muscolosi, presi da attività senza finalità precise, talvolta disturbano. Sbilanciano lo spettatore verso un senso compiuto irravisabile, per quanto la tavolozza psichedelica soddisfi il sogno e l’immaginazione. Questi grandi lavori funzionano alla maniera di un farmaco psicotropo: ne hai bisogno per quanto quest’ultimo ti lasci parzialmente infelice.
Alessandro Bazan introduce, con la sua pittura schizzante, ironica, solipsistica, costruita sempre sulla estraneazione di una memoria storica riemersa e declinata al participio presente, un vocabolario difragmenta (ironici, feticisti, masochisti, sensualisti) colti al volo come performances di esperienze letterarie, teatrali, cinematografiche, ma anche di vita sulla strada. Ricordi, o semplici istantanee, che diventano archivio esteso; Instagram (un’applicazione usata per trasformare le foto digitali in immagini dal viraggio anni Settanta) come filtro che rende omogeneo e appena distanziato il rutilante scenario dell’Occhio.

barelylegal_3La nostalgia del post modernista
Alessandro Bazan è un post modernista che ha nostalgia della modernità; egli non tiene più insieme l’inganno della Storia su cui poggiarsi e mutua dai suoi lacerti “in situazione” una compattezza che gli viene dalle prospezioni nella memoria pittorica storica, dalle incursioni nell’illustrazione editoriale, dal fumetto e da Palermo; la città da sola costruisce, difatti, un arazzo realista così stratificato che chi vi risiede non può evitarne il contagio.
Con la personale di Alessandro Bazan la Galleria d’Arte Moderna di Palermo, in collaborazione con ArsMediterranea, prosegue il suo progetto espositivo dedicato all’arte contemporanea.
La mostra si articola in un percorso di circa sessanta opere, tutte inedite, frutto degli ultimi anni di lavoro e che rappresentano un punto di svolta rispetto alla ricerca precedente di Bazan.
Il catalogo edito da Flaccovio Editore oltre al testo di: Francesco Gallo Mazzeo e Francesco Galluzzi, contiene inoltre un’intervista di Vincenzo Profeta.