Stamattina c’è neve dovunque. Ci facciamo sopra dei commenti. Mi dici che non hai dormito bene. Dico che
neanche io. Tu hai avuto una nottata terribile. “Anch’io”.
Siamo straordinariamente calmi e teneri l’uno con l’altra,
come se ognuno di noi percepisse la fragilità mentale dell’altro.
Come se sapessimo cosa l’altro prova. Non è così,
naturalmente. Non è mai così. Non importa.
È della tenerezza che m’importa. Questo è il dono
che stamattina mi commuove e sostiene.
Al pari di ogni mattina.
Sua zia muore: tumore fulminante. Senza troppi spettatori a cui fosse concesso di assistere alla corruzione che si era invaghita del suo corpo; lui dormiva ancora. Le veneziane serrate, i tappi dentro le orecchie, gialli, cilindrici, gommosi
Da sveglio si osserva i piedi, gli alluci caprini — piede del diavolo, ma lei sapeva già che avrebbe visto poco più che contorni sfocati —. Il cheratocono, la curvatura irregolare della cornea, privo dell’ausilio delle lenti a contatto rigide, non permette alla luce di mettere a fuoco le immagini sulla retina, sia da vicino che da lontano.
Si chiede cosa distingua, se gli appare bella solo per quella distorsione. Intanto si prepara per il funerale; ci andrà da sola.
Da piccola aveva desiderato morire: il collo spezzato tra la spalliera del letto e il materasso di crine, così da evitare di sostenere le perdite nei contingenti di famiglia. Le era rimasta l’abitudine di parlare dondolando la testa, quasi dovesse esserle spiccata via, come in quelle bambole snodabili che si appendono allo specchio retrovisore delle automobili.
In psicologia, il complesso di atteggiamenti e di azioni implicati nel rapporto madre-figlio, soprattutto nei primissimi anni. Essi possono essere iperprotettivi, esclusivistici, creatori di profondi legami di dipendenza; non raro è l’opposto, cioè una vera e propria carenza di m., di cure e affetto materni. Un m. incongruo è rivelatore di una struttura abnorme della personalità o di conflittualità nevrotiche delle più diverse specie
(Wikipedia)
Rave, musica, flash, musica. Ovatta. L’aria sembra morbida e soffusa. Il prato, il vento notturno, i cani. Saremo un migliaio a ballare. Ma io no, mi agito con il pensiero. Il corpo è immobile. Pietrificato. Un’isola di marmo in un mare di sudore. Cascate di afrori che profumano di rose. Le mani sono diventate lunghissime. Si tratta delle dita che sembrano spighe. Le guardo e colano via. Bava. Stelle. Buio. Un silenzio micidiale. Mi ritrovo a casa. Salva
È figlia unica, almeno sei paia di occhi sono stati puntati su di lei: un genitore, due nonni, una prozia. Non è più figlia, ricorda per amore. Gesti minimi in quella casa: un uovo alla coque e disgustosi yogurt alla banana. Nessuna storia diversa da quella che la muove dall’interno verso l’esterno. Un’incrostazione che la conduce al bisogno di accudimento
I giocattoli organizzati dentro una valigetta erano suoi. Non ha avuto però una stanza con il possesso delle cose care che, infine, dormivano insieme a lei quando gliene regalavano di nuove. Quaderni, poster, libri, mutande, pantaloni, maglioni, magliette, canottiere, scarpe; soprattutto le scarpe. Amata lo è stata, con cura ossessiva. La nonna le sterilizzava il corpo con l’alcol etilico e il cotone idrofilo, di ritorno da casa della vicina, malata di tumore al seno. In seguito fu lasciata in custodia di sua madre, ha dormito con lei fino alla maggiore età. Sotto tutela di quella madre bella e ansiosa e del mondo che non le voleva altrettanto bene. Ora vive in una stanza, come figlia unica che ha ottenuto quella metratura minima per sé. Come allora la bambina unica resta insaziabile. Studia di notte, a tratti digiuna, parla di sé in modo compulsivo. Si lamenta di sensazioni che la invadono. Pensieri di morte. “Resto sola e non ce la faccio, non ce la faccio, non ce la faccio”.
Quindici anni, appena sua madre usciva per andare al lavoro si ingozzava. Un chilo di gelato, un panettone intero a Natale, le uova della Lindt a Pasqua. Un chilo e mezzo di pane con l’olio, trecento grammi di parmigiano reggiano, se c’era. Sua madre tornava e diceva “Chi ha svuotato il frigo?” e lei “Sono venuti dei compagni e gli ho offerto qualcosa”
Mentire è il punto di intersezione fra tossicodipendenti e adolescenti afflitti da disturbi alimentari. Ti si cariano i denti per l’acido cloridrico e svieni spesso a causa della disidratazione. Una fame pantagruelica compressa in spazi angusti e un lavoro comune che l’aspettava già allora, come condanna prolungata. Assistente di produzione con velleità autoriali. Vent’anni in flashforward. Riempire lo stomaco, il sesso, la testa. Ogni cosa equivale a ogni altra cosa. Dalla forma all’informe…
Abbuffarsi e vomitare. Nel cesso di sua madre, in quello degli appartamenti nei quali ha vissuto, e anche nel cesso delle case nelle quali è stata ospite: un ricordo dalle viscere. Alcuni di quei bagni avevano le mattonelle rettangolari degli anni settanta, verde scuola, altri il buco a terra per convogliare l’acqua della doccia. Non ha fatto attenzione ai piani. Se ci fosse per caso una ricorsività per quanto riguardava i piani nei quali aveva abitato. Nei numeri civici sì, c’era. Il nove era ricorrente, tre il migliore. Scopre la sindrome di Gilbert: non può bere più alcolici, non come prima. Una sera dopo l’altra pensa a come riempirsi. Finito il dovere, si stordisce andando a letto con il primo che abbia un odore accettabile e non le faccia temere un’infezione.
“Tu porti in te un riflesso di me stessa, una parte di me. Ti ho sognato, ho desiderato la tua esistenza”
(Anaïs Nin, Henry & June)
Le spiace tanto che tu non risponda. Non si può accendere un fuoco sotto la pioggia. Ma nemmeno sottrarsi alla speranza che, prima o poi, il possibile, ciò che in una vita si può fare per rimediare, vada a posto
Se lo augura sopratutto per il bene che vi siete voluti, come è naturale. Ti scrive da una Roma bagnata da una pioggia anomala e torrenziale. Una Capitale che sfrigola e puzza di frittura, cucina contadina e non regala appagamenti. Nemmeno alla lingua. I turisti scivolano dentro e fuori i quartieri del centro, tenendoli insieme come perle colorate e pacchiane. Prova a mettere insieme i pezzi delle sue visioni. Le notizie su quello che avrebbe voluto fare da sveglia si chiariscono quando sogna. Arriva qualche dispaccio e si limita a coglierlo al netto di ogni pretesa. Ti ha sentito bloccarla al risveglio, erano le tue mani, non può sbagliarsi. Senza sapere però cosa voglia dire. Ha urlato e poi ti ha chiesto perché non la baciavi. Perché?
Stenta ad ammettere che quell’animale selvaggio che abita nel suo cervello si agiti e frema quando lei abbassa la guardia. Talché, continua ad accadere, di tanto in tanto, di lasciare che l’azzanni. Fate l’amore, vi confessate tradimenti. Gli rimproveri l’abbandono. Torni nella vostra casa al mare. Vedi sua figlia. Ti riprendi il posto giusto nella sua storia. Sempre i flash si svolgono con estrema limpidezza. Ma nelle ultime settimane qualcosa è cambiato. Può darsi che lui sia solo e ripensi a voi in un modo pervaso da commozione nuova.
Poi capisci, e vorresti che lo facesse anche lui, quanto sia difficile mettere insieme queste righe in modo onesto e sensato. Senza perciò stesso dare l’impressione di volere la sua attenzione a ogni costo. Ma l’idea di cambiare il passato per intercessione del presente c’è. Ed è imperiosa. Stiamo parlando di fantasticherie. Da sveglia si tratta di proporre un semplice scambio di notizie, che renda onorevole il suo passaggio – quello manca – per tutti quanti gli anni insieme. Rimossi così, con rancore e senza un giusto addio.
Sentire anche se l’amico caro, il fratello perduto, l’amore che fu grande, sta bene. O accertarsi che ti pensi. A quanto pare, non si può fare altro che questo. Sperare, evitando attese. Sennò interpreteresti lo stesso ruolo che è appartenuto a tua madre, che troppo ha aspettato sul molo tuo padre, che non aveva più il fiato per tornare ed è annegato prima di tenerti addosso. Vuoi credere lo stesso in una soluzione del cuore: un “tana libera tutti”. Per trovare la strada che permetta alle cose belle di prendere il sopravvento. Per sempre. Per sempre.
Un errore di segmentazione (in inglese segmentation fault, spesso abbreviato in segfault) è una particolare condizione di errore che può verificarsi durante l’esecuzione di un programma per computer. Un errore di segmentazione ha luogo quando un programma tenta di accedere ad una posizione di memoria alla quale non gli è permesso accedere, oppure quando tenta di accedervi in una maniera che non gli è concessa (ad esempio, scrivere su una posizione di sola lettura, oppure sovrascrivere parte del sistema operativo). I sistemi basati su processori come il Motorola 68000 fanno riferimento a questi errori come errori di memoria o di bugs
(Wikipedia)
La Natura non è silenziosa, si limita a ignorarci. Dio non è in silenzio, ci snobba. Siamo troppo stupidi per destare il suo interesse. Nei momenti di pausa dal lavoro di cameriera, dal lavoro quindi, dal movimento continuo delle mani che mette a tacere il cervello, pensavo alla Natura e agli errori nel mio sistema
Le stelle ci guardano dalla stessa parte del mondo? Ho molta solitudine per vagare. E certe volte devo farlo. Con il dovere intendo la necessità di allontanarmi dal retro del magazzino del ristorante nel quale lavoro. Quel posto mi opprime anche a casa.
Trecentocinquanta euro in tutto. In nero. La cucina industriale da smontare e lucidare due volte al mese. Con il solvente per stalle. Le varici per il calore del forno. E il comì che mi segue quando vado a prendere la farina. Ci vado il mercoledì. La settimana scorsa mi ha avvicinato dicendomi che gli sembravo smagrita. Gli ho risposto sì, che era vero. Mi ha toccato il braccio. Il polso. Il viso. Avevo avuto l’influenza e la bronchite ma non ero mai mancata dal lavoro.
Ho un diploma da tecnico del computer. Ormai superato. All’epoca dei miei quattordici anni sembrava una buona idea. Un modo per parlare una lingua oggettiva che risolve i problemi. Poi i problemi hanno cominciato a parlare linguaggi non biunivoci. Non c’era più l'”and or not” booleano, né quello sequenziale delle righe di programmazione.
Alfredo, il comì, se n’è andato per qualche tempo, poi è tornato. Il suo cane è morto e lui ha avuto un piccolo esaurimento nervoso. Aveva quello da amare. Solo il cane l’amava. Per quanto nemmeno amare sia un verbo sicuro. Qualunque oggetto può scomparire, in un modo o nell’altro. Anche Alfredo quindi si è sciupato. Ha cominciato ad avere un tremito alla testa, che non lo lascia. Sono andata a vedere dove l’ha seppellito. L’ho accompagnato nel punto esatto del giardino che si trova dietro la casa, lì ha scavato una buca di un paio di metri e ci ha messo dentro il cadavere del cane. Lo ha seppellito abusivamente. Con il veterinario del Comune sarebbe costato troppo. In quel punto abbiamo guardato la terra smossa e mi ha toccato il braccio, il polso e ancora il viso.
Il mercoledì rimane un giorno difficile per entrambi.
RITUALI
di Eugenia Galli
A un certo punto ho cambiato rituali
È domenica mattina, sono in chiesa
tra i fedeli che procedono in fila
per il corpo di Cristo, per il corpo del Figlio
da ingoiare nell’ostia
Senza vino, per favore
ché ho paura del sangue.
All’altare quel prete censore
la inzuppa nel calice, la ficca in bocca
a me che ho dieci anni e sono astemia.
Beffardo o noncurante poi aspetta
che io torni alla panca, mi inginocchi
con gli occhi alti alla croce.
A quel punto non sapevo cosa fare. Sentivo l’ostia incollata al palato e quel sapore disgustoso in bocca. Ho aperto il libretto dei canti e l’ho sputata in mezzo a due salmi sperando di non essere vista.
Poi è arrivata una suora. Se n’era accorta. Senza una parola, con disgusto glaciale, ha aperto il libretto, ha preso l’ostia piena di vino e saliva e l’ha mangiata facendosi il segno della croce.
Me ne sono ricordata anni dopo
ingoiando lo sperma di qualcuno,
condannando così a non farsi carne
quei Figli dal sapore disgustoso.
Ero Tèreo re di Tracia che violenta la cognata,
ero la chiave del Conte Ugolino
che gira una volta alla porta
and turns once only
We think of the key, each in his prison
Thinking of the key
each confirms a prison
Era un Vangelo in breve
senza prendermi la briga della cena degli ulivi della croce.
Altare era il bancone al bar,
allora il vino l’amavo e il mio il rito
era uno scambio abituale: saliva
in fondo alla navata della sera,
schiacciata in mezzo a musica profana.
MI HANNO VIOLENTATA,
MI HANNO VIOLENTATA E MI HANNO STRAPPATO LA LINGUA
Dorme. Non fa altro da quasi due giorni. Per fortuna c’è il frigo e un ottimo servizio in camera. Mi cerca con la mano nel sonno. Cerca il mio sesso. Appena mi sfiora mi bagno
Sul soffitto le ombre della lampada. Non posso accendere la televisione perché lo sveglierei. Con la mano destra mi stringe il braccio. Ho la vescica che scoppia ma non mi muovo. Potrei girarmi su un fianco. E se sgattaiolasse via? Anche un cane ha bisogno di carezze figuriamoci io. Scelgo: la catena. Fammi stare su questa lama. Anche se dovessi ferirmi i piedi, ci voglio camminare sopra. Con la mano libera sposto questi pensieri del cazzo. Che ore sono? Da quanto tempo sono inchiodata qui? Ci siamo calati e abbiamo ballato per giorni. Mi è restata la testa e la vescica. Lo sporco sotto le unghie. L’odore di sudore. Fame che fa muovere l’intestino. Il resto del corpo appare solo quando mi tocca. Poi sparisce di nuovo. Nella testa due diverse me discutono con opinioni contrastanti. Ma chi ha pagato la stanza? La lingua sulle labbra è come la scia della lumaca sulla carta vetrata.
Raccontami una storia. Mi gratto le falangi fino a farle sanguinare. Scusa mamma, ti ho voluto bene. Se muoio qui nessuno saprà dove mi trovo e spero nemmeno come ci sono arrivata. La borsa, le sigarette, i documenti… Non so dove li ho messi. Provo a ricordare cose che generalmente voglio dimenticare. Ho la scimmia. Piango. Quando avrò il permesso di muovermi? Russi. Ti amo…