Alters

Il mio Mercurio in cancro mi fa scrivere col sangue e con la memoria. Ma non ho memoria, solo sassi. Il Cancro è un segno zodiacale amniotico, quindi acquatico, ma ancora di più affetto da una malattia mortale: il passato.

Cammina di sghimbescio con un occhio gettato verso il serbatoio del ricordo.

Per questo, a un certo punto, mi sono chiesta come sfuggire alla necessità dell’accumulo dei fatti. Fatti per nulla oggettivi perché sottoposti alla trama e all’ordito della mente. Delle convenzioni della mente. Fatti che si fondano su continuità e consuetudine. Isole di materia nella brodaglia del caos. Inchiostro, liquidi, ricordi. Fatalità.

Regina Josè Galindo
Regina Josè Galindo, performance

Da qualche tempo non faccio che disciplinarmi alla gratitudine e al silenzio. Un addestramento militare. Eppure l’esito sembra quello di una grande confusione, di dati e fatti.

Principiamo con le doglianze, che sono la personale liturgia che mi permette di tallonare il presente. Salmodiare il dolore è già di suo professione di fede

Bellezza e oscurità, come luce e tenebre, come lode e lamento, sono il pane della sopravvivenza. Il vetro impresso che resiste quattromila anni alla devastazione della realtà. Trasformare la tenebra in luce, in modo inaspettato, è il miracolo che si deve compiere. Sto cercando un rimedio che porti la tristezza della mia anima, la malattia mortale della mia anima, oltre il confine della solitudine. Mi serve un sostegno robusto e silenzioso, un luogo d’ombra e ristoro permanente, che consenta alla mia schiena di riposarsi. Voglio sperimentare il mondo com’è, nella sua varietà e brillantezza.

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Shirin Neshat, Fervor, Two- channel video work, 2000

Dentro di me abita una figura maligna e ostile che mi guarda. Ho tentato di allearla ai miei giorni migliori. All’orizzonte soleggiato dei miei giorni migliori. Ma temo una rappresaglia: Le immagini corporee sono quelle del divoramento, della ferita, dell’amputazione. La mente è scossa da una guerra intestina, in cui figure interne si accusano reciprocamente in dialoghi dolorosi e cupi. Sono risoluta a disarmare il persecutore, occupandomi di cauterizzare la melena dell’ira. Ogni ora l’orologio batte l’una, le tredici meridiane. Il sole verticale, l’ombra verticale che spiove. Una ripetizione sepolcrale. Una stranezza alla quale ci si abitua. Un inceppamento del futuro. Ogni ora mi auguro che i minuti ricomincino a fluire nell’ordine che gli è proprio. Intanto cade una brocca giù dal tavolo. Si frantuma. È sempre l’una. Namibia Ela Gibil, mi chiamano così, di padre siriano e madre ebrea d’Israele. E questo quanto riassume tutte le esperienze fisiche che ho appreso. Tutte le fisiologie che mi sono state trasmesse. Tutti gli apprendimenti che mi sono stati inculcati. Tutte le guerre di religione che stanno tra il Sole e Dio. Il sommario della serietà vaginale. Non si possono indossare pantaloni e si debbono coprire le parti belle. Il mio corpo è degli altri, il mio corpo è negli occhi degli altri. Percorro le strade del deserto come un lupo che non sa di altri terrapieni. Un lupo in estinzione condannato alla sabbia, all’arsura e al vento. Un lupo della terra. Poiché la terra è femmina e come le femmine desta bramosia e scempio. La terra qui la si percorre come un sesso, la si trivella e bombarda, la si circoscrive con frontiere e linee e pieghe. Come il sesso di una femmina. Come il sesso di una femmina la terra è impura e ha il mestruo e ospita velati i suoi nuovi dissidenti. I nuovi mangiatori di mestruo. Quel sangue che trionfa e ci fa impazzire. Il sangue che scorre tra le gambe e che dobbiamo nascondere: ché è vita che si perde. Morbo malvagio il cui odore le altre donne avvertono e proteggono come si copre un assassinio.

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Shirin Neshat, Passage Series, Cibachrome print, 2001. Courtesy Gladstone Gallery

La terra esige il sangue, un lavacro scarlatto e pomposo di sangue d’uomini. Sangue buono ed eroico. Sangue che esplode e imputridisce e canta e implora altro sangue. Queste sono le due leggi e le due congiure: una è femmina e segreta, l’altra è maschio e si veste di rosso pubblicamente.

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Shirin Neshat, Tooba Series, C-print, 2002. Courtesy Gladstone Gallery

Raccolgo sassi ed è l’una perpetua. I sassi parlano una lingua dimenticata, bisbigliano di una magia che mia nonna mi ha insegnato e guarisce. Sono i betili, i sessi anneriti, le pietre che cantano. Ma questa è un’altra storia, quella di un sole doppio e dei suoi travestimenti. Camminando in cerchio si accalcano ricordi, e i ricordi sono conchiglie dal guscio friabile. Le schiaccio, si sbriciolano. Diventano polvere. E la polvere è la carne delle cose. Quand’ero bambina una volta ho percorso il deserto da sola. Allontanandomi persi l’orientamento. Fui inghiottita dalla sabbia fino ad arrivare a una camera bianca, sotterranea. Si pregava a voce sommessa. C’erano ombre profonde e sussurri. Ho avuto paura. Sfioravo le pareti d’intonaco, per essere certa di non sognare. Intanto mi chiedevo come fossi potuta arrivare in un luogo come quello. Sentivo il gorgoglio di una fonte e qualche risatina soffocata, così mi sono rannicchiata in un angolo. Aspettando. A un certo punto ho intravisto un’ombra rischiarata dall’interno. Uno spettro che proiettava un alone grigio e fioco. Qualcosa di umano e rassicurante, del quale non si scorgeva che il contorno. E quest’ombra mi scrutava, pronunciava il mio nome, tessendo profezie che non capivo. Mi chiamava donna-riccio. Creatura al cui interno la carne sarebbe rimasta acquattata sotto un manto di aculei. Carne dolce, carne e polpa succosa sotto la polvere, con mani colme di pietre che cantano.

Sparì il profeta del corpo, l’hamam sepolto e i miei anni perpetui

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Jack Smith, Untitled, Analog C-print hand printed from original color negative on Fuji Crystal Archive paper 14 x 11 inches (35.6 x 27.9 cm) 17 x 15 1/2 x 1 3/8 inches (43.2 x 39.4 x 3.5 cm) framed, c. 1958-1962/2011. Courtesy Gladstone Gallery

Il deserto ora splende. Ho un libro miniato aperto sulla pagina che raffigura un cespo di rose selvatiche, rose purpuree. Incolte e spinose. È l’una. Il mio cuore non è lieto. Il vento fa sembrare gli scricchiolii delle ante la mano di un intruso; il vento rovista alla cieca. Il cuore non è lieto, lo sento in tumulto nella penombra combusta, nella canicola secca, nel mezzo vuoto della casa, della parte di questa casa riservata a me che sono l’invisibile. Magda è partita e ha lasciato un biglietto sotto la porta. All’una in punto. Tornerà quando il vento avrà spazzato le colline e le mie mani saranno del tutto tranquille. Magda è mia sorella. Ha fianchi larghi e occhi torbidi, rimpiange quel che abbiamo perso.