Nirvana

Non era mica brava a scuola. Le sembrava tempo sprecato star fermi. Un’insopportabile paralisi. Fuori il sole, dentro i libri. Fuori la corda, il cesto, la terra, dentro i quaderni. Dentro l’ordine, fuori il gioco. Dentro buio, fuori luce. Dentro i vecchi, fuori i bambini. Fuori lei, separata dai bambini

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Yvonne Venegas, Nirvana (serie me and Hank), impresión digital, 101.6 x 127 cm, digital print, 40 x 50 in., 2006

La sua vicina di casa la usava come bambola. La truccava, la vestiva e si chiudeva nell’armadio. Fingendo di essere un principe. Fuori restava il cortile. Vuoto. Dentro i nonni malati. In seguito, la vicina, che aveva otto anni più di lei, se ne andò con un ragazzo maggiorenne e geloso. All’interno dell’armadio non abitava più nessuno.

Era lenta. Quando guardava in una stanza le cose e le persone si allontanavano. In modo impercettibile, ma si allontanavano. Così, se la chiamavano per andare a tavola, a mangiare o a essere punita perché non voleva, finiva per tardare

 

La sua forma era piccola, pensava a una bambina di plastica ancora più minuta, che la venisse a trovare durante la notte. Dentro le altre stanze c’era il silenzio ma nella sua si bisbigliava. Il vicino di casa bambino l’aveva convinta dell’esistenza di un mago nella scarpiera dell’ingresso. Nel suo ingresso. Lei andava a rivolgere le sue preghiere all’entità delle scarpe. Ogni pomeriggio alle tre in punto. Nella penombra dell’anticamera pregava con forza che tutti e quattro ringiovanissero.

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Yoshie Nishikawa, Bambole, fotografia, 103 x 103 cm, collezione dell’artista, 1995 (2009)

Ogni male si spegne nella luce del fuori. Anzitutto nella luce. Dentro c’era molta oscurità mista a tanto amore. L’oscurità vinceva per la sua calma. Fuori non c’era nessuno ma quando andava a vedere i treni non pensava più alle stanze chiuse, all’odore di medicine, ai bambini lontani. Sapeva che sarebbe andata. Una partenza inevitabile. Loro sono rimasti dentro.

 

Il secondo amore

Arricogghiti. Torna a casa. Nesciiddocu. Esci da qui

Ana Vaz “Occidente”, 2015
Ana Vaz, Há Terra!, still da video, 2015

Non ci nne ‘ppi nuddu. Non ce n’è per nessuno. Sunu i maccarruni ‘cca lingunu a panza…

Lui è davanti a me e usa le parole del porto. Quelle della concretezza. Le frasi  di chi se ne va. Sono abituata a chi se ne va. Ad aspettare e a perdere. Lui è già partito, anche se ancora mi guarda. Io l’ho battuto sul tempo. Stiamo preparando le restituzioni, svuotando i cassetti e i file del computer con le fotografie. Cancellare è un gesto minimo. Questa è vera economia: grandi risultati con scarsa fatica.

Il tuo amico Ettore è già arrivato per il trasloco, conosce l’antagonista. Conosce il cuore che ti ho sputato addosso. Conosce te

Ho seppellito Ravel nel giardino e sotto di lui l’anello che mi hai regalato, così nessuno potrà trovarlo. Questo è nesciri. Uscire. Adesso stiamo viaggiando, le nuvole sono basse come nei paesaggi fotografici dell’Arizona. Ettore allunga la mano verso la mia coscia e l’accarezza. Non mi ritraggo. Non voglio lui. Eppure voglio che mi desideri. Mi aggrappo al suo volermi. Alla radio Like a stone. Il mondo mi sembra diverso e imperfetto. Anche il corpo ha cambiato i confini; è più piccolo. Occupa uno spazio concentrato sul sedile anteriore.

— “Come stai?”

— “Bene”

— “Sei sicura”

— “Sì”

— “Hai voglia di parlare”

— “No”

— “Devo dirti una cosa…”

— “Ravel l’ho ammazzato io”

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Andy Warhol, The Kiss (Bela Lugosi), silkscreen inks on paper, hand printed by the artist 30 x 40 1/4 in. (76.2 x 102.2 cm), 1963

Se non l’avessi fatto non saresti qui. Con me. Era la cosa più giusta per te. Per noi. Per il futuro che ci aspetta. Eri così attaccata a lui. Non te ne saresti mai andata se fosse stato ancora vivo.

Ciatu. Fiato. Mi votu e mi rivotu senza sonnu. Mi volto e mi rivolto senza sonno.

Prigioniera del secondo amore.

Scrivile addosso quando non ti è possibile farne a meno

Se l’essere umano si estinguesse, la natura si riapproprierebbe senza problemi dello spazio lasciato libero. Questo pensiero è per me di assoluta consolazione

(Vitaliano Trevisan)

Lo sente come la quindicenne che fa entrare il compagno di classe nella sua stanza e nel suo corpo. Tiene un diario dove raccoglie cose importanti e segrete. Quindi non può avvicinarsi. Questa sensazione di intimità proibita e lancinante. Lo sa: anche lui lo pensa. Pensa: “interdetta”. O forse, più semplicemente, non pensa nulla e si limita a osservarla. Ci sono pochi passi dalla sedia al letto. Ma la velocità di lui è un’altra. Anche nei brani che gli fa ascoltare ci sono delle aree di disturbo. Per fortuna lo divertono

Sua madre le ripete al telefono che si butta via. Il tempo la trascina con sé e trova faticoso opporsi.

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Nan Goldin, Nan and Brian in bed, NYC 1983

Si deplora. Lo ha invitato a cena, è venuto. Lui ha mangiato un hamburger, lei salmone. Lei ha bevuto tre calici di vino per allentare la tensione. Hanno riso e parlato. Lui molto meno di lei. Ha evitato di guardarla dritto negli occhi. Non sa, comunque, se a mancare di raggiungerlo dipenda da una sua negligenza. Da un’ostruzione nello spirito d’iniziativa. Qual è il suo ritmo?

Guardala, è la Natura. Una natura coltivata. Come l’argine attraversa la campagna: «Ti raggiunge. Ti sposti». Le rogge si sono riempite così tanto d’acqua che il terreno la vomita in superficie. Le zanzare della pianura li divorano, mescolando il loro sangue

Le giornate sono afose e queste temperature, ne è certa, lo deprimono e lo stancano. Gli fanno desiderare di svincolarsi dalle passeggiate e dagli appuntamenti. Più semplice incontrarla in luoghi senza particolari caratteristiche. Anonimi e traslucidi come autogrill. Lei canticchia Sóley e pensa: “Sei un alieno”. Però lei si è adattata e perduta: “Tu no”, dice. Parlando a se stessa.

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Przemek Matecki, Landscape, oil, paper on canvas, 81 x 68 cm, 2007

— Non ti lascerò andare prima che tu mi abbia benedetto!

— Posso solo danneggiarti se ti tocco

— Tu puoi salvarti e… Salvarmi

— Il tuo è un atto di arroganza. Infantile

— Non è così

— Come fai a esserne certa?

— Sono solo innamorata. Ma non c’è più grandezza nemmeno nei grandi

— Essere pagato per quello che faccio è l’unica grandezza che conosco. Ma non sono in vendita, semmai in affitto…

Marco Ferreri I Love You
Marco Ferreri, I Love You, still from film, 1986

Quel  fatto di parlare a un morto resta una prova di carattere. Attraversare il rifiuto era, in ogni caso, quel tipo di tentativo che avrebbe preferito di gran lunga risparmiarsi. Il silenzio di un morto resta una condizione che chiunque vorrebbe evitare. Un’interruzione che devia il percorso nell’età dei ripensamenti. In qualche modo frutto della decadenza fisica e del fuoco. Un incendio la brucia e dovrebbe generare nuove arborescenze, lungo le zone morte. Così l’ostacolo è biblico. E l’angoscia il pegno che lascia a lui, per essersi spinta nella direzione sbagliata. Lei non sa più tornare a casa. Una casa che manca. Dopo cena si è aperta una possibilità. Infine, una lotta interiore con vecchi fantasmi e angeli vendicativi. La bambina è chiusa nella stanza e ha paura. La donna è inadatta ad andare da lui, a scoparselo o a farsi scopare: in questa prova c’è il fastidio dell’altro e l’attesa di una terra promessa sulla quale riposare. Prima o poi.

Giacobbe gli chiese: «Ti prego, svelami il tuo nome». Quello rispose: «Perché chiedi il mio nome?» E lo benedisse lì. Giacobbe chiamò quel luogo Peniel, perché disse; «Ho visto Dio faccia a faccia e la mia vita è stata risparmiata». Il sole si levò quando egli ebbe passato Peniel; e Giacobbe zoppicava dall’anca.

 

 

Gli anni bellissimi

— Ora che ho dimenticato tutto

— Ora che hai dimenticato tutto?

— Sì

— Bé?

— Che faccio?

— Ricomincia no!?

Cambiare casa è un impresa, figurati ventitré. Nella smorfia il numero in questione significa “culo” ma io di culo in quel senso non ne ho avuto. Livia lo sa, lei è intelligente e lo sa, che io e la fortuna siamo continenti in due galassie separate. Respira. Livia mi dice che trattengo il respiro. Grazie che poi mi viene l’ansia. Avrei detto che uno come me poteva essere il figlio scemo di un medico greco e di una massaggiatrice francese. Uno che le ambizioni le ha mancate per il gusto aristocratico di fallire meglio e fallire di più.

Bologna, 1997
Bologna, Rave party, 1997

— Tu non mi credi mai. Prima di tutto questo ero intelligente

— Ma amore mio io credo sempre a tutto quello che mi dici. Sei intelligente. A modo tuo, ma sei intelligente.

— Ok. Fammi un esempio

— Esempio?

— Sì, esatto. Un esempio

— Andare da un falso psicologo, dargli 50 euro per farti dire che devi prendere la patente, oppure dare fuoco a una pianta in piazza Strozzi, col rischio che ti arrestano per terrorismo salvo poi portarti in una clinica psichiatrica, magari convincendoti che è una spa dove si fa pure meditazione. Sei intelligente amore mio. P.S.: Io amo solo te…

— Ah! Buono a sapersi

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Liu Xiaodong, Chinatown, olio su tela, 200 x 180 cm, 2015

Questi sono i miei anni bellissimi, il dolore cronico dell’ernia è scomparso. Per quanto buche e motorino minacciano ancora la salute della mia schiena. Anche se la convalescenza ha una sua poesia. Pure nella sfiga, stare sul letto a mangiare cous cous, ascoltando le tue repliche infinite di Sarah Kane, che di gioioso non ha molto. Lo sai. Mi tiene stretto. Arreso alla ventitreesima casa con un cratere nel bidet. Legato a un quartiere dove i Bangladesh vendono le mandorle tostate all’una di notte. Avvinto a te che sei la bellezza che mi aleggia addosso, con il profumo francese che non vuoi metterti se non facciamo l’amore. Qui sul tappeto come due cani in calore. Io ti prendo da dietro, così posso accarezzarti il seno e morderti la nuca. Tu ti agiti. All’inizio fingi che non ti piace. Che non hai voglia. Che non mi vuoi. E io ti prometto cinquanta euro. Tu rispondi che sono poche cinquanta. Nemmeno una puttana di quelle senza documenti. Dici. Io raddoppio la posta

— Ti compro una barbie

— Un peluche?

— Uno yo-yo?

— Ti odio, sei un bastardo…

Intanto lo spingo un poco più in fondo. Mi sputo sulle mani e lo lubrifico per farlo entrare meglio. Sudo mentre inizi a mugolare. Ti sussurro che ti pagherò cento euro se lo prendi tutto. Fino in fondo. Ti assesto una sculacciata. Ti infilo lentamente il medio nel culo, accarezzando tutto intorno con cura. Lo so che ti piace. Ti sei bagnata bambina. E abbiamo scopato a lungo e bene. È il mio peggior male: non vedo mai la seconda via.

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Francesca Woodman, Untitled, New York, 1979–80 © George and Betty Woodman

Tutto questo non c’è più. Il passato è una forma di creazione. Come i resti di certe foto attaccate dai pesciolini d’argento. Immagini che diventano magnifiche nella lontananza. Così, amare ritorna semplice, perché è un’azione finita

Fai quello che cazzo ti pare ma portami sempre con te

“Le auguro due cose che spesso ostacolano il successo esteriore e hanno tutto il diritto di farlo perché sono le più importanti: l’amore e la libertà”

(Stig Dagerman)

Vivo in una piccola città. Anche i muri hanno le orecchie. Bisogna stare molto attenti a chi si fa una confidenza o a mostrare cambiamenti nell’aspetto. Quando cammino per la strada, se mi sono truccata in velocità e incontro le amiche di mia madre, subito mi chiedono: “Ma stai poco bene?”. E mi infastidisco, perché non mi va che le persone sappiano cosa penso

Noi ci vestiamo tutti uguali. Compriamo le cose che indossiamo negli stessi negozi, che stanno nel centro commerciale a due chilometri dalla fermata del tredici. Certe sere, dopo il lavoro, vado a fare una passeggiata sotto i portici del centro commerciale del quale ho parlato. Ci vado spesso, visto che ci lavora un ragazzo che mi piace. Mi fermo davanti alla vetrina di fronte alla sua. Lo vedo riflesso e studio le sue espressioni facciali. Ma lui non si è mai accorto di nulla. Non si è accorto di me. Questo ragazzo è molto carino ed è pure fidanzato. Però da qualche tempo litiga spesso con la sua tipa. Lo vedo dal riflesso: prima di chiudere il negozio le telefona e discutono. Si fa scuro in faccia e stropiccia le guance e la fronte. A me piace uguale, perché è così bello che quando si arrabbia riesce quasi a sembrare più maschio. Ha gli occhi azzurri e la barba bionda. Se poi è proprio imbufalito, gli spuntano le lentiggini sul naso. Non sono mai entrata nel suo negozio che, fra virgolette, è di telefonia ed è in franchising.

… E la venne a prendere per fare un po’ di primavera e nella mente ripeteva le ultime parole che aveva letto su un libro svedese

Mi immaginavo che andasse così. Come nei film  che si guardano nelle giornate di pioggia. Ché fuori non c’è niente. E in quei venti minuti di oscurità arrivano brutti pensieri. Da prima. E li devi scacciare

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Gottfried Helnwein, Anna, 160 cm x 109 cm, oil and acrylic on canvas, 2010

Per esempio, i miei compagni di scuola che non mi parlano. Fanno finta che non esisto. Io li chiamo e loro non sentono. Non ascoltano neppure se mi avvicino. Arrivano, di tanto in tanto, questi pensieri che non so più se sono veri o la mia mente li ha inventati. Ma io non voglio dargli soddisfazione a queste voci nella testa. Io voglio andarmene via. Con lui. Lui per me è tre metri sopra il cielo. Sta fra le stelle che vedo di notte. Così lontane dal mio quartiere puzzolente, con i gabbiani che mangiano la spazzatura e uccidono i piccioni sui tetti delle automobili.

Mia madre prepara sempre quelle stupide patate bollite con il prezzemolo e l’aglio. Ma io resisto. E ti penso. Tu stai per andare via quindi…

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Tanto fuoco. Tanta cenere

— “Avvicinarsi abbastanza da scaldarsi ma non così tanto da ferirsi, si chiama dilemma del porcospino”

— “Cosa vuoi dirmi”

— “Niente”

— “A me piace la tua libertà, al contrario di altri”

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Sam Jury, Anothing Thing Coming, Video Still-72_0, 2004

Si comincia così, come è successo a Yann Lemée – che un giorno sarà ribattezzato Yann Andréa da Marguerite Duras –. Il ragazzo non ancora ventenne, quando s’imbatte in Les Petits Chevaux de Tarquinia , i resoconti italiani, cade nell’incantamento della scrittura durassiana. “Una specie di colpo di fulmine” ha spiegato poi. “Da quel momento ho lasciato perdere tutto, tutti gli altri libri per non leggere che i suoi”. Lei aveva trentotto anni di più ma era una bambina amata male.

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Robert Doisneau, Marguerite Duras in rue Saint Benoit, Saint-Germain-Des-Pres, 1955

Questa storia mi ha ossessionata a un punto tale che bere, scrivere e cercare un amante giovane sono diventate tre linee guida. Negli ambienti della Nouvelle Vague capitolina mi faccio chiamare Marguerite. Sono una ragazza impegnata in politica, che fuma, veste di nero e impreca. Ho un atteggiamento sfrontato. A tratti ruvido. Altri fin troppo ilare. Alla maniera degli anni ’50 del Novecento. Quando gli intellettuali erano dissidenti.

Sogno in francese. Bevo come un uomo. Penso come un uomo. Ma il mio desiderio è nascosto. Non lo sa nessuno. Nemmeno chi l’ha preso fino in fondo

Nemmeno io so del fuoco e della cenere, perché la pelle non riesce a confessarmi cosa vuole. Quando tutto può chiudersi – la curiosità, la seduzione, la cena, il tempo, la penetrazione, la fine -, posso tornare ai miei pensieri. Che non sono miei ma di Marguerite

Lei è la mia “istituzione di sequestro”, mi forza a essere migliore attraverso la perdita della mia identità. Mi chiedo come si stesse a Saigon nel 1930, nell’Indocina francese. Al mio tempo. Fra gli odori di fritto nelle strade e la polvere sulle scarpe che usavo per andare al Liceo. Costeggiando le fumerie d’oppio nelle quali si perdeva mio fratello Pierre. Sono andata vicino a Vinh-Long per vedere il sole tramontare fra le risaie e per ritrovare i luoghi della sua giovinezza. Della mia attuale giovinezza. Ieri la guerra d’Algeria oggi i presidi militari per arginare il terrorismo.

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Alain Resnais, Hiroshima mon amour, 1969

Entrambe scriviamo all’uomo che non c’è. Un padre che manca riempie lo spazio. In modo vasto e inconsolabile come la percezione del corpo nel paesaggio. Ma anche un figlio che manca è una ferita e anche una consolazione. Non se ne andrà mai e congiunge le nostre vite. Ecco queste due assenze – un padre e un figlio – uno alla destra e l’altro alla sinistra. Uno con un volto, l’altro solo un calore in fondo al ventre e una morbidezza nella carne. Questa è la stanza nella quale ci guardiamo in faccia, e ci rende una. Ti parlo nella testa e intanto risistemo la stanza, mi trucco e ravvivo i capelli. Fra poco devo partire.

Ho attraversato montagne di rifiuti con un taccuino fra le mani. Mi manchi tu però. I tuoi baci, il tuo odore, la tua distanza. Gli occhi contro i miei. Quello sguardo orientale che mi dà la forza per essere Marguerite.