— “Avvicinarsi abbastanza da scaldarsi ma non così tanto da ferirsi, si chiama dilemma del porcospino”
— “Cosa vuoi dirmi”
— “Niente”
— “A me piace la tua libertà, al contrario di altri”
Si comincia così, come è successo a Yann Lemée – che un giorno sarà ribattezzato Yann Andréa da Marguerite Duras –. Il ragazzo non ancora ventenne, quando s’imbatte in Les Petits Chevaux de Tarquinia , i resoconti italiani, cade nell’incantamento della scrittura durassiana. “Una specie di colpo di fulmine” ha spiegato poi. “Da quel momento ho lasciato perdere tutto, tutti gli altri libri per non leggere che i suoi”. Lei aveva trentotto anni di più ma era una bambina amata male.
Questa storia mi ha ossessionata a un punto tale che bere, scrivere e cercare un amante giovane sono diventate tre linee guida. Negli ambienti della Nouvelle Vague capitolina mi faccio chiamare Marguerite. Sono una ragazza impegnata in politica, che fuma, veste di nero e impreca. Ho un atteggiamento sfrontato. A tratti ruvido. Altri fin troppo ilare. Alla maniera degli anni ’50 del Novecento. Quando gli intellettuali erano dissidenti.
Sogno in francese. Bevo come un uomo. Penso come un uomo. Ma il mio desiderio è nascosto. Non lo sa nessuno. Nemmeno chi l’ha preso fino in fondo
Nemmeno io so del fuoco e della cenere, perché la pelle non riesce a confessarmi cosa vuole. Quando tutto può chiudersi – la curiosità, la seduzione, la cena, il tempo, la penetrazione, la fine -, posso tornare ai miei pensieri. Che non sono miei ma di Marguerite
Lei è la mia “istituzione di sequestro”, mi forza a essere migliore attraverso la perdita della mia identità. Mi chiedo come si stesse a Saigon nel 1930, nell’Indocina francese. Al mio tempo. Fra gli odori di fritto nelle strade e la polvere sulle scarpe che usavo per andare al Liceo. Costeggiando le fumerie d’oppio nelle quali si perdeva mio fratello Pierre. Sono andata vicino a Vinh-Long per vedere il sole tramontare fra le risaie e per ritrovare i luoghi della sua giovinezza. Della mia attuale giovinezza. Ieri la guerra d’Algeria oggi i presidi militari per arginare il terrorismo.
Entrambe scriviamo all’uomo che non c’è. Un padre che manca riempie lo spazio. In modo vasto e inconsolabile come la percezione del corpo nel paesaggio. Ma anche un figlio che manca è una ferita e anche una consolazione. Non se ne andrà mai e congiunge le nostre vite. Ecco queste due assenze – un padre e un figlio – uno alla destra e l’altro alla sinistra. Uno con un volto, l’altro solo un calore in fondo al ventre e una morbidezza nella carne. Questa è la stanza nella quale ci guardiamo in faccia, e ci rende una. Ti parlo nella testa e intanto risistemo la stanza, mi trucco e ravvivo i capelli. Fra poco devo partire.
Ho attraversato montagne di rifiuti con un taccuino fra le mani. Mi manchi tu però. I tuoi baci, il tuo odore, la tua distanza. Gli occhi contro i miei. Quello sguardo orientale che mi dà la forza per essere Marguerite.