Dimenticanza e risarcimento come bene supremo

Sparire devo, | mi dicono, laggiù, | e spinta, non sparisco | ancora, voglio volare | una volta ancora sulla | terrazza. | Non ho taciuto | perché tacere è buono e bello, | non avevo più niente da dire. (Ingeborg Bachmann)

Contro la Purezza è un progetto che da qualche anno si muove fra arte, pensiero filosofico e riflessione politica. “Le partage (Des Voix)” è un capitolo in viaggio di questo lungo percorso che ha portato l’artista e performer Isabella Bordoni in diverse città italiane ed europee fra cui Rimini, Milano, Vienna e Berlino.

Le partage (Des Voix) è un’indagine sui temi del consenso e sul sentimento del tragico. Una ekphrasis organizzata attorno all’analisi delle fonti, che ricompongono l’infranto sul lascito storico del Novecento. L’intervento-installazione, seguendo un percorso multidisciplinare tra video proiezione e ambiente sonoro, indaga i sistemi di controllo attraverso gli spazi. Siano essi di detenzione o di ricovero coatto. Ospedali psichiatrici, campi di detenzione, carceri, questi ultimi sono quegli scenari evocati dove, al di là di ogni possibile previsione, è ancora pensabile superare la barriera dell’annichilimento e della privazione di sé. Restare in vita, è uno dei temi suggeriti, per diventare memoria storica e collettiva. Tutto ciò grazie agli unici attributi capaci di eludere la coercizione fisica e sociale: il pensiero e la parola. Un connubio in grado di originare   ove lo spirito critico e l’etica s’inabissano nel qualunquismo – una cifra poetica.

Ragioniamo quindi di un lavoro su pellicole originali, estratti dal processo contro Adolf Eichmann alla Casa del Popolo di Israele (1961), degli audio tapes di Hannah Arendt in merito allo stesso processo Eichmann, delle parole scritte dalla poetessa Ingeborg Bachmann, delle riflessioni di Walter Benjamin e Michel Foucault, nonché delle “Considerazioni inattuali” di Friederich Nietzsche. Riproduzioni su nastro magnetico e pellicole (ri)attualizzate, che collidono e fanno salire in superficie un idioletto estetico soffice, fluente dalle immagini al ralenti di voli, scene naturali e resti di abitazioni epurate dalla presenza dell’uomo. Con la voce di Bordoni che “percuote” la citazione; uscendo dal tempo, respirando le sentenze filosofiche in una piega di senso, ampliando con un tono, in apparenza neutro, le stesse frasi che scivolano dal paradosso del fantasma della voce su una zona obliqua dello spazio reale.

Le partage des voix è anche, e soprattutto, un testo di Jean Luc Nancy; uno dei più grandi studiosi delle tematiche del corpo in territorio estetico. Sicché, il motivo di questa citazione, resa maiuscola già a partire dal riadopero del titolo, è il valore dialogico da conferire alla “comunità che viene”: “La comunità inconfessabile” di Blanchot[1]. Forma linguistica e fenomenologica sullo stato del mondo al mondo. La poesia “aperta” alla ri-semantizzazione condivide l’urgenza di dare a questa parola raddoppiata un valore morfo-fonematico, la cui connotazione visuale è già significato, sia plastico-sensoriale che politico e culturale. Là, nella stanza dentro la quale la visione e l’ascolto si svolgono, la parol e il logos vengono indagati nella loro possibilità relazionale, e di conseguenza politica. Per la loro risonanza, e pertinenza, con la questione della responsabilità e della libertà. « Ogni volta che è in gioco il linguaggio », scrive Hannah Arendt: « la situazione diviene politica per definizione, perché è il linguaggio che fa dell’uomo un essere politico ». La sentenza compare nell’introduzione di Vita activa[2], un’opera che, secondo Habermas, non solo attesta la simpatia arendtiana per Aristotele, ma soprattutto supporta Habermas stesso nella convinzione che la democrazia trovi il suo principio più genuino nel linguaggio, in quanto medium intersoggettivo della comunicazione atto a regolare la discussione pubblica e a produrre l’intesa. Caratterizzato da una razionalità che è normativa e per tutti vincolante, ossia universale, il linguaggio costituirebbe così il legame degli individui in quanto membri della “comunità linguistica ideale” (Vincenzo Cuomo). La questione che Bordoni pone con il suo lavoro decennale, circolata ben oltre il cameo che l’artista ha regalato a Catania nel 2011, versa nel repertare il luogo (topos) simbolico dentro il quale affondano le radici del consenso e la temibile gestazione del pensiero unico. Uno stato di salute e di malattia la cui definizione oscilla tra il concetto e l’applicazione della “purezza” e, ancora, l’“incanto” per il mefitico volto della decontaminazione. Da qui l’altrettanto temibile manicheismo dei sistemi normativi che, di conseguenza, hanno autorizzato le derive del Novecento nazista, fascista e stalinista:

Nel marzo del 1980, tre settimane prima di morire, Sartre affermava: «Bisogna cercare di spiegare che il mondo di oggi, per quanto orribile, è soltanto un momento del lungo svolgimento della storia, che in qualsiasi rivoluzione o insurrezione la speranza è sempre stata una delle forze dominanti, e come la speranza rimanga la mia concezione del futuro».[3]

Può esistere un corso storico senza risarcimento?

Memoria e oblio come forma statutaria di un quotidiano rimescolamento implicano, al contrario, una nicciana legislazione della dimenticanza. La “Partizione delle Voci” è, dunque, un tessuto che si strappa, nell’attesa di un movimento assolutorio e pacificatore.

Eppure l’opera non culmina in apologia; giacché il dramma è aleatorio e soffocato dalla ripetizione e quindi non più recuperabile all’interno di una ideale partitura narrativa. La “crepa” poetica divarica in questa maniera gli orli di assetti sociali ed estetici divenuti in apparenza remoti.

Tuttavia, la stessa temperatura drammaturgica volta all’assurdo, è assimilabile al paradigmatico stato di narcosi che intride, in modo ciclico, periodi di confusione politica e fragilità economica. Quel cuneo che ci divide su una terra comune parla di Memoria come responsabilità storica (di un eccidio) e Necessità di stabilire una “regola dell’oblio” (H. Arendt, L’umanità ai tempi bui, Raffaello Cortina editore[4], 2006). Siamo invitati però ad abbandonare senza esitazione le fantasie di un risarcimento di sangue, a non indulgere nel qualunquismo e nell’indifferenza, perseguendo (come entità plurale) l’idea di una flagrante assunzione di responsabilità; rivolta a ciascun individuo. E di questa apocope della menzogna e della sua parabola politica parla, voglio qui menzionarlo, anche Derrida a proposito di Vichy (J. Derrida, Sull’arte della menzogna, Castelvecchi, 2005). Drammaturga, performer, poeta, Bordoni attua un métissage desunto dalle arti multimediali e dal teatro di realtà, più che mai in questo suo lavoro sugli archivi del Novecento e i paludamenti della sovranità nazionale, che autorizzava uno Stato e il suo capo a stabilire regole universalmente deprecabili. Condizione che pur tendendo alla comunità che “dovrebbe venire” realizza il suo stupore più alto sotto la pioggia della solitudine, rendendo l’idea di umanità « Una paradossale pluralità di esseri unici » (H. Arendt, ibid.). Qualità necessaria (quella della voce, forse come cascame della trascendenza) che inneggia alla libertà come bene supremo ed espunge i dissenzienti al pari di forme virali. Tutto ciò “avviene” nell’opera di Bordoni nell’arco di appena venti minuti di orazione civile. Meno di mezz’ora di innalzamento della coscienza. Laicità e lirismo che ci auguriamo continuino a lavorare i nostri pensieri nella loro strana grammatica sommersa e, grazie al cielo, impura.

BIO

Isabella Bordoni è poeta, autrice e interprete, artista visiva e sonora. Inizia il proprio percorso artistico nella seconda metà degli anni ‘80 all’interno della scena nord europea delle arti sceniche e elettroniche. Cura la drammaturgia, la regia e la direzione di lavori per il teatro, la radio, i media. Riceve commissioni da enti radiofonici europei, è presente in festival e rassegne di teatro, poesia, arte. Attenta alle poetiche dei luoghi e alla reciproca influenza tra l’organizzazione dello spazio naturale, architettonico e il gesto artistico, ha fatto di questi orizzonti materia di indagine con progetti artistici, cura e docenze. “Libertà come bene supremo_ giornate di osservazione e critica del contemporaneo” è il progetto permanente di riflessione intorno alle politiche della memoria e ai concetti e le pratiche che Isabella chiama di “cittadinanza poetica”. Concluso il progetto triennale Contro la purezza, che indagava le figure del consenso e le pratiche normative, ha avviato quest’anno il ciclo Refugee, riflessione ad ampio raggio intorno alle politiche e alle poetiche che rendono possibile la creazione di un’utopia nello spazio di relazione (del, e) tra corpo e paesaggio.

Le partage (Des Voix) nasce come una delle sei tappe che hanno composto il ciclo Contro la purezza e consiste in una installazione video in loop con proiezione di immagine e testo. Dal vivo è il mix del suono e delle voci, con materiali provenienti dagli archivi storici e voce dell’autrice. Fra i materiali sonori d’archivio, le testimonianze di Hannah Arendt, Ingeborg Bachmann, Adolf Eichmann. Le partage (Des Voix) come altri suoi lavori, può essere interpretato come “installazione” o “performance poetica” o “recital”, a seconda della familiarità che con i termini indicati ha il contesto che li ospita. A Catania si è svolto presso la Fondazione Puglisi Cosentino, il 14 aprile 2011, come intervento di live art; presente l’artista.


[1] « Fino a 31 anni Blanchot fu giornalista politico, collaboratore del “Journal des Débats” rivista di estrema destra, di cui diventerà anche Redattore capo. Influenzato dalla tradizione famigliare rigidamente cattolica, manifesta in questa fase simpatie monarchiche e auspica una sorta di rivoluzione spirituale nazionalista e anticapitalista. Tra il 1933 e il 1944 scrive oltre 200 articoli, collaborando anche a “Rempart”, a “l’Insurgé” a “Ecoutes”, e sarà uno degli animatori della rivista “Combat” fondata da Thierry Maulnier. Quando, durante l’occupazione, Drieu La Rochelle assunse la direzione della Nouvelle Revue Française, con l’assenso dei tedeschi, Blanchot ne divenne il segretario (dal marzo al maggio del 1942). Insomma la vicenda è chiara e in effetti lo stesso Blanchot non ha mai nascosto questo aspetto della sua esistenza, ma ha anche preso nettamente le distanze da esso negli anni successivi. Senza riuscire tuttavia ad evitare che si formasse un sospetto ingiustificato di antisemitismo. Quando nel 1975 la rivista Gramma pubblicò per la prima volta una bibliografia completa degli scritti giovanili di Blanchot, e riprodusse alcuni dei pezzi più violenti, si poté dedurre dai testi stessi che l’avversione di Blanchot per la Germania nazista contemplava anche la denuncia della politica antisemita di quel regime. Già nel 1933 egli infatti denunciava “le barbare persecuzioni contro gli ebrei” compiute dai nazisti. Nel 1992, tuttavia, la faccenda si riaprì con la pubblicazione su “Tel Quel” di un articolo di Jeffrey Mehlman che denunciava nuovamente l’antisemitismo di Blanchot. E Todorov sostenne l’accusa interpretando l’intera sua opera come chiusa e incapace di accogliere qualsiasi alterità. Entrambi tuttavia ignoravano volutamente gli scritti successivi alla guerra di Blanchot, e tutte le sue nette prese di distanza rispetto alla sua opera di quegli anni. Emblematica, d’altra parte, proprio in questo senso è la sua solida antica amicizia con Emmanuel Lévinas la cui famiglia soffrì l’Olocausto sulla propria carne: Blanchot stesso nascose la moglie e la figlia di Lévinas e le aiutò a mettersi in salvo fuggendo clandestinamente in Svizzera. Tuttavia a partire dal 1938 Blanchot cessa di scrivere articoli di carattere prettamente politico per dedicarsi essenzialmente alla critica letteraria.[…] Nel 1941 incontra Georges Bataille col quale stringe una profonda amicizia. Tramite Bataille, nel corso della guerra si avvicina agli ambienti della resistenza (Antelme, Duras, Mascolo) e del PCF, pur continuando a scrivere per riviste vicine alla Francia di Petain. Certo il Blanchot che esce dalla guerra è un uomo molto diverso da quello dell’epoca precedente. Gli anni ’40 e ’50 sono dedicati essenzialmente alla scrittura di opere narrative e critiche. L’impegno politico ritorna solo nel 1958 quando Blanchot manifesta pubblicamente il suo rifiuto nei confronti di De Gaulle. Nel 1960 è uno dei redattori del “Manifesto dei 121” contro la guerra d’Algeria. In questa occasione egli concede alla rivista “L’Express” l’unica intervista di cui si abbia notizia (e che, paradossalmente, non fu mai pubblicata). Il ’68 vide Blanchot partecipe ma in forma anonima, alle manifestazioni. Insieme a Dionys Mascolo fu uno degli animatori del Comité d’action étudiants-écrivains. Nel maggio del ’68 conosce il giovanissimo Derrida ed ha inizio un profondo sodalizio intellettuale. Negli anni successivi la questione politica assume per Blanchot i contorni della fondamentale riflessione intorno alla comunità, che porta a quel breve testo, per molti versi eccezionale, La comunità inconfessabile del 1983 ». (http://www.riflessioni.it/enciclopedia/blanchot.htm)

[2] Vita Activa. La condizione umana (1958) descrive le tre condizioni dell’esistenza; condizioni fondamentali per capire la “antropologia” harendtiana. Esse corrispondono all’ambiente naturale degli individui. La Terra, e quindi l’attività del lavoro, è rappresentata dall’ animal laborans; la seconda condizione è quella dell’ homo faber, ovvero l’insieme di artefatti di cui l’uomo si circonda per vivere e operare nel mondo; la terza è lo spazio pubblico in cui gli individui interagiscono mediante il discorso, l’attività corrispondente è, per l’appunto, l’agire. Le tre attività compongono la “vita activa”.

[3] Jean-Paul Sartre, Maintenant l’espoir…(III), in « Le Nouvel Observateur », 24 marzo 1980, citato in Indignez-vous! Di Stéphane Hessel, Indigéne édition, 2010; traduzione italiana di Maurizia Balmelli, Add editore, Torino 2011, terza ed., p. 25.

[4] Il testo della grande filosofa fu pronunciato il 28 settembre ’59 del secolo scorso, come discorso in occasione del conferimento del premio Lessing. Si trattò del primo riconoscimento ufficiale per colei che resta famosa soprattutto come autrice de « La banalità del male ».