Il fiume

Rari Nantes in gurgite vasto

(Virgilio, Eneide, I, 118)

In ambienti chiusi e locali di edifici si svolge gran parte della vita dei bianchi. L’aria è la stessa per tutti ma il modo di pensarla, le pause lunghe del respiro, la luce che entra attraverso gli occhi, no. La sala da parrucchiere in cui lavoro è un luogo chiuso, per quanto dallo specchio si veda il marciapiedi

Guardo le facce dei passanti.Talvolta le loro guance sono cadenti, le rughe sotto la bocca rendono i volti tristi come quelli delle marionette. Camminano fuori tempo. Non hanno la musica. Il ritmo. A me basta accordare la chitarra, pensare al deserto, alla distesa di sabbia e silenzio che porto nel petto. Ai giorni e le notti in cui non si incontrava nessuno. Alle conchiglie che pendono dalle mie orecchie

« Fatoumata, Fatoumata, fermati… »

« Mai »

Mi hanno detto che sono una strega, una poco di buono, una puttana. Non importa. Canto lo stesso. Lo faccio con gli accordi bassi Wassoulouche penetrano nel ventre e lo riempiono. E penso agli occhi delle bambine, prima che il coltello recida il loro fiore. Quando diventeranno adulte sarà imbarazzante per loro trovarsi da sole con un uomo. Sarà il canto l’unico piacere. Ecco, appaiono le mani di mia madre che prepara il Mafé, le mani di cui mi fidavo. Così le sue litanie cominciano a scorrere impetuose. Clandestine. Un fiume dello stesso colore del coltello, con l’acqua della città dove vivo ora diversa e uguale a quella che mi ha portata a migliaia di chilometri da casa. Una casa data alle fiamme, nella quale non ci sono nè madre nè padre.

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Hoda Afshar, Westoxicated #1, Archival Pigment Print, 104 x 90 cm / edition of 5, 2013

Se sono malata, la musica è il mio ospedale, la chitarra il mio medico, e non c’è Dio che possa togliermela senza uccidermi. Non c’è posto al mondo che sia straniero fino in fondo, se due uomini possono incontrarsi e suonare i loro strumenti. Non c’è uomo malvagio che non sia scosso e illuminato dal suono della lingua barbara, anche se non è la sua lingua nativa

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Fabrice Monteiro, The Prophecy, 2013

Il deserto è stato creato affinché gli uomini potessero trovare la propria anima. La mia è rimasta lì. Fra le dune. Canta sul djembe, sul karignan e sui flé e nemmeno i kalashnikov potranno coprire la sua malinconia, il blues che va « Dal Mali al Mississippi ».

 

 

La stanza

Non posso arredare la stanza, disse la ragazza. Dovrò andare via; meno peso avrò meglio sarà. Lui teneva gli occhi bassi e giocava con le perle di legno del bracciale africano. La ragazza cominciò a spogliarsi, in silenzio

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Reuben Negrón, The Embrace, from the series Dirty Dirty Love, drawing

Il silenzio era subentrato alla fine della playlist di Youtube. Si sentiva il fiato di entrambi. Le note di lei erano diventate alte, quelle di lui gutturali.

« Come stai?», disse la ragazza

« Adesso bene », disse il ragazzo

Nella stanza il calore si era propagato e le coperte erano diventate fastidiose. Il ragazzo, nudo, fra le lenzuola di colore indefinito, si era disteso sul fianco e stava guardando i dorsi dei libri vicino al letto. Li accarezzava con l’indice e nella mente diceva: Addio Salinger, addio Bernhard, addio Carver. Fuori da là una distesa di rabbia con le conviventi della ragazza pressava sulla soglia della stanza

« Riavvieresti il Mac?», disse la ragazza

« Sì. Hai Antony? », disse il ragazzo

« Qualcosa. Cerca su Spotify», disse la ragazza

« Ci rivedremo? », disse il ragazzo

La ragazza non rispose

Fuori il buio si allargava come una macchia di risentimento e paura. Il ragazzo sapeva che oltre al freddo lo aspettava una sera senza cena. Aveva terminato i soldi che i genitori gli mandavano per il mensile. Li aveva finiti a causa della ragazza

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Haruhiko Kawaguchi, from the series Flesh Love, 2016

Per uscire dalla stanza doveva attraversare uno stretto corridoio fra la porta e l’ingresso; un budello sovraccarico di cianfrusaglie che andavano da una bicicletta senza una ruota a un’enciclopedia di cucina

« Perderai il notturno», disse la ragazza

Il ragazzo si rivestì. Uscì dalla stanza mentre la ragazza lo salutava con un cenno della mano; gli occhi incollati al display del cellulare. Oltrepassato il corridoio, restò a guardare le altre porte con le chiavi infilate nelle rispettive serrature. Si diresse in cucina. Aveva sete. Per un attimo, solo per una frazione infinitesimale di tempo, pensò di aprire il gas e chiudere le tre ragazze a chiave nelle loro stanze

Poi se ne andò, lasciando il rubinetto che gocciolava nel lavabo.

Sindrome del cadavere che cammina

Nella sindrome di Cotard vi è un delirio di negazione, vi è ansia, con tematiche ipocondriache di depersonalizzazione somatica e derealizzazione, in cui la persona crede di non avere certe cose; gli individui che ne sono affetti credono che persone care siano morte o negano di avere parti del corpo, come il fegato, il cuore, etc, oppure credono che il loro corpo si sia trasformato, pietrificato (per esempio una madre che si dispera della morte del figlio nonostante la sua presenza nella stanza del colloquio). La sindrome di Cotard è una delle malattie più rare oggi conosciute. Si stima esserci non più di un centinaio di casi noti alla scienza ed è detta anche “Sindrome dell’uomo morto”, oppure nel mondo anglosassone “Sindrome del cadavere che cammina”

(Wikipedia)

Vi ho mai parlato del suo stato nervoso? Non è che facesse cose del tutto insensate, tipo discutere al telefono con nessuno. Si limitava a camminare. Fino al punto di mettere a tacere i pensieri. Un pezzo di strada per volta. Chi cammina lo sa che i pazzi sono quelli che si vedono circolare nei paesi, senza sosta e meta. Così lui lo faceva con circospezione. I pazzi camminano e parlano da soli, qualche volta il tono della loro voce si eleva, se i fantasmi spingono dai confini

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Joakim Eskildsen, Interior with doll, pigment print on archival paper, framed 35 X 45 cm / 45 X 53 cm framed, edition of 21+ 2AP 89 X 107 cm / 109 X 130 cm framed, edition of 7 + 2AP, 2013

Accompagnava ogni passo alla moviola del rapporto con lei e alla musica negli auricolari, la stessa musica che dava la radio locale

Una volta a casa, mi raccontava quello che gli capitava di vedere: muretti a secco, buche causate dai rovesci autunnali, motorini con intere famiglie impilate sopra. Animali appena tirati sotto da qualche automobile o gonfi per l’avanzato stato di decomposizione

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Era come vedere attraverso i suoi occhi, che non avevano mondo. Non parlava con altri amici oltre me, solo con i passanti cui chiedeva sigarette e poche persone della vita di prima. Dormiva sul mio divano, lavava i piatti, spazzava e dava da mangiare ai cani, prima di iniziare a camminare. Camminare. Camminare. I poveri sono abituati a perdere, ma l’amore rientra nei beni impalpabili che permettono di stringere qualcuno in inverno e potercela avere con il vicino e le sue scopate notturne, certi di trovare almeno un Cristo disposto ad annuire davanti ai nostri vaneggiamenti fluviali. “Tu sei troppo buono”, e cose di questo genere

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Ogni volta che vedeva una Punto blu, uguale a quella di lei, il cuore cominciava a battergli in modo ostinato e cavernoso. Diceva. Sembrava anche si fermasse, così il respiro. A quel punto tutto il corpo gli si faceva curvo e vulnerabile; scomponibile. Un corpo tuta, senza più nulla dentro. E si pizzicava il braccio per dimostrare a se stesso che non sentiva più niente.

La sua era una storia triste in tre parole: cornuto e mazziato. Quando smise di preoccuparsi del vuoto, cominciò a divertirsi a riempirlo.

L’amore è un morbo che viene dai morti

E parlami, amato mio / di un’altra me / che troverai di nuovo con gli stessi occhi innamorati / per le strade fredde della notte, / e ricordami / nei suoi baci sofferti, / sulle rughe gentili / accanto ai tuoi occhi 

(La strage dei fiori, Forough Farrokhzad)

 

— « Tutto ci arriva dal sottosuolo”, dice Artur

— « Mi comunicano emozione più le cose, i morti, delle persone in carne e ossa”, precisa Artur

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Marlene Dumas, Skull (of a woman), Oil on canvas, 110 x 130 cm, 2005

Camminano. Ambra è infagottata. Si volta, le mani sono rosse e spaccate, il fiato diventa fumo

— « L’arte può aumentare il grado di consapevolezza? L’arte che fai, quella che vuoi che gli altri guardino, quella in cui dici di credere e che non è tua? »

— « Dipende. Se pensi a film come Cesare deve morire sì. L’hai visto? Gli attori sono ergastolani e mentre interpretano Shakespeare si rendono conto che non c’è grande differenza fra le cospirazioni contro Cesare e le guerre di Camorra »

— « Uhm… Vuoi dire che non ci si può sottrarre a una cosa che ci tocca quando la stiamo vivendo in prima persona? »

— « Proprio così »

— « Ma è teoria. Solo teoria. Se qualcuno vedesse noi due, sentisse quello che ci diciamo, ne trarrebbe qualche insegnamento come nel film dei Taviani? »

— « Non lo so Ambra. L’arte è una forma di libertà, un modo per sottrarsi… Noi due proviamo a stare dove stiamo e a starci bene »

— « Noi siamo uno dei tanti modi affinché irrompa il miracolo fisico. Un’uscita dagli stereotipi della Storia e dalle strettoie del contesto. Come per la divina Forugh – o ingenua voce, bruciata nelle piazze durante gli anni neri, compianta da decine di persone ogni inverno sotto la neve, a cercare “quelle due giovani mani, quelle due giovani mani / sotterrate dal peso della neve senza sosta”. Ricordi? »

— « La strage dei fiori, The house is black… Strazianti »

— « I nostri bambini traumatizzati si tengono per mano. Ma non si porta a letto l’intelligenza delle donne, vero? »

— « Io vorrei venire a letto con la tua intelligenza e con la bambina. Vorrei fare arte rubando i tuoi pensieri segreti, perché arrivassero come un calcio sugli stinchi di quelli che ci guardano »

— « Ma cosa capirebbero gli spettatori di questa “opera privata” dei nostri baci, dei nostri corpi, della ricerca di una cosa che non esiste qui… Che elemento aggiungeremmo noi due alle rappresentazioni della natura? »