In psicologia, il complesso di atteggiamenti e di azioni implicati nel rapporto madre-figlio, soprattutto nei primissimi anni. Essi possono essere iperprotettivi, esclusivistici, creatori di profondi legami di dipendenza; non raro è l’opposto, cioè una vera e propria carenza di m., di cure e affetto materni. Un m. incongruo è rivelatore di una struttura abnorme della personalità o di conflittualità nevrotiche delle più diverse specie
(Wikipedia)
Rave, musica, flash, musica. Ovatta. L’aria sembra morbida e soffusa. Il prato, il vento notturno, i cani. Saremo un migliaio a ballare. Ma io no, mi agito con il pensiero. Il corpo è immobile. Pietrificato. Un’isola di marmo in un mare di sudore. Cascate di afrori che profumano di rose. Le mani sono diventate lunghissime. Si tratta delle dita che sembrano spighe. Le guardo e colano via. Bava. Stelle. Buio. Un silenzio micidiale. Mi ritrovo a casa. Salva
È figlia unica, almeno sei paia di occhi sono stati puntati su di lei: un genitore, due nonni, una prozia. Non è più figlia, ricorda per amore. Gesti minimi in quella casa: un uovo alla coque e disgustosi yogurt alla banana. Nessuna storia diversa da quella che la muove dall’interno verso l’esterno. Un’incrostazione che la conduce al bisogno di accudimento
I giocattoli organizzati dentro una valigetta erano suoi. Non ha avuto però una stanza con il possesso delle cose care che, infine, dormivano insieme a lei quando gliene regalavano di nuove. Quaderni, poster, libri, mutande, pantaloni, maglioni, magliette, canottiere, scarpe; soprattutto le scarpe. Amata lo è stata, con cura ossessiva. La nonna le sterilizzava il corpo con l’alcol etilico e il cotone idrofilo, di ritorno da casa della vicina, malata di tumore al seno. In seguito fu lasciata in custodia di sua madre, ha dormito con lei fino alla maggiore età. Sotto tutela di quella madre bella e ansiosa e del mondo che non le voleva altrettanto bene. Ora vive in una stanza, come figlia unica che ha ottenuto quella metratura minima per sé. Come allora la bambina unica resta insaziabile. Studia di notte, a tratti digiuna, parla di sé in modo compulsivo. Si lamenta di sensazioni che la invadono. Pensieri di morte. “Resto sola e non ce la faccio, non ce la faccio, non ce la faccio”.
Quindici anni, appena sua madre usciva per andare al lavoro si ingozzava. Un chilo di gelato, un panettone intero a Natale, le uova della Lindt a Pasqua. Un chilo e mezzo di pane con l’olio, trecento grammi di parmigiano reggiano, se c’era. Sua madre tornava e diceva “Chi ha svuotato il frigo?” e lei “Sono venuti dei compagni e gli ho offerto qualcosa”
Mentire è il punto di intersezione fra tossicodipendenti e adolescenti afflitti da disturbi alimentari. Ti si cariano i denti per l’acido cloridrico e svieni spesso a causa della disidratazione. Una fame pantagruelica compressa in spazi angusti e un lavoro comune che l’aspettava già allora, come condanna prolungata. Assistente di produzione con velleità autoriali. Vent’anni in flashforward. Riempire lo stomaco, il sesso, la testa. Ogni cosa equivale a ogni altra cosa. Dalla forma all’informe…
Abbuffarsi e vomitare. Nel cesso di sua madre, in quello degli appartamenti nei quali ha vissuto, e anche nel cesso delle case nelle quali è stata ospite: un ricordo dalle viscere. Alcuni di quei bagni avevano le mattonelle rettangolari degli anni settanta, verde scuola, altri il buco a terra per convogliare l’acqua della doccia. Non ha fatto attenzione ai piani. Se ci fosse per caso una ricorsività per quanto riguardava i piani nei quali aveva abitato. Nei numeri civici sì, c’era. Il nove era ricorrente, tre il migliore. Scopre la sindrome di Gilbert: non può bere più alcolici, non come prima. Una sera dopo l’altra pensa a come riempirsi. Finito il dovere, si stordisce andando a letto con il primo che abbia un odore accettabile e non le faccia temere un’infezione.