Maternage

In psicologia, il complesso di atteggiamenti e di azioni implicati nel rapporto madre-figlio, soprattutto nei primissimi anni. Essi possono essere iperprotettivi, esclusivistici, creatori di profondi legami di dipendenza; non raro è l’opposto, cioè una vera e propria carenza di m., di cure e affetto materni. Un m. incongruo è rivelatore di una struttura abnorme della personalità o di conflittualità nevrotiche delle più diverse specie

(Wikipedia)

Rave, musica, flash, musica. Ovatta. L’aria sembra morbida e soffusa. Il prato, il vento notturno, i cani. Saremo un migliaio a ballare. Ma io no, mi agito con il pensiero. Il corpo è immobile. Pietrificato. Un’isola di marmo in un mare di sudore. Cascate di afrori che profumano di rose. Le mani sono diventate lunghissime. Si tratta delle dita che sembrano spighe. Le guardo e colano via. Bava. Stelle. Buio. Un silenzio micidiale. Mi ritrovo a casa. Salva

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Alberto Garcia-Alix, Camino del Golgota I, Photographie noir et blanc © Alberto Garcia-Alix — Courtesy the artist and kamel mennour, Paris, 2005

È figlia unica, almeno sei paia di occhi sono stati puntati su di lei: un genitore, due nonni, una prozia. Non è più figlia, ricorda per amore. Gesti minimi in quella casa: un uovo alla coque e disgustosi yogurt alla banana. Nessuna storia diversa da quella che la muove dall’interno verso l’esterno. Un’incrostazione che la conduce al bisogno di accudimento

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Markus Åkesson, Girl with a cloisonne tongue, Oil on canvas — 40 × 50 cm Courtesy of the artist & Galerie Da-End, Paris, 2014

I giocattoli organizzati dentro una valigetta erano suoi. Non ha avuto però una stanza con il possesso delle cose care che, infine, dormivano insieme a lei quando gliene regalavano di nuove. Quaderni, poster, libri, mutande, pantaloni, maglioni, magliette, canottiere, scarpe; soprattutto le scarpe. Amata lo è stata, con cura ossessiva. La nonna le sterilizzava il corpo con l’alcol etilico e il cotone idrofilo, di ritorno da casa della vicina, malata di tumore al seno. In seguito fu lasciata in custodia di sua madre, ha dormito con lei fino alla maggiore età. Sotto tutela di quella madre bella e ansiosa e del mondo che non le voleva altrettanto bene. Ora vive in una stanza, come figlia unica che ha ottenuto quella metratura minima per sé. Come allora la bambina unica resta insaziabile. Studia di notte, a tratti digiuna, parla di sé in modo compulsivo. Si lamenta di sensazioni che la invadono. Pensieri di morte. “Resto sola e non ce la faccio, non ce la faccio, non ce la faccio”.

Quindici anni, appena sua madre usciva per andare al lavoro si ingozzava. Un chilo di gelato, un panettone intero a Natale, le uova della Lindt a Pasqua. Un chilo e mezzo di pane con l’olio, trecento grammi di parmigiano reggiano, se c’era. Sua madre tornava e diceva “Chi ha svuotato il frigo?” e lei “Sono venuti dei compagni e gli ho offerto qualcosa”

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Lucy Glendinning, Feather Child 4, Jesmonite, steel, wax and feathers Courtesy of the artist & Galerie Da-End, Paris, 2010-2012

Mentire è il punto di intersezione fra tossicodipendenti e adolescenti afflitti da disturbi alimentari. Ti si cariano i denti per l’acido cloridrico e svieni spesso a causa della disidratazione. Una fame pantagruelica compressa in spazi angusti e un lavoro comune che l’aspettava già allora, come condanna prolungata. Assistente di produzione con velleità autoriali. Vent’anni in flashforward. Riempire lo stomaco, il sesso, la testa. Ogni cosa equivale a ogni altra cosa. Dalla forma all’informe…

Abbuffarsi e vomitare. Nel cesso di sua madre, in quello degli appartamenti nei quali ha vissuto, e anche nel cesso delle case nelle quali è stata ospite: un ricordo dalle viscere. Alcuni di quei bagni avevano le mattonelle rettangolari degli anni settanta, verde scuola, altri il buco a terra per convogliare l’acqua della doccia. Non ha fatto attenzione ai piani. Se ci fosse per caso una ricorsività per quanto riguardava i piani nei quali aveva abitato. Nei numeri civici sì, c’era. Il nove era ricorrente, tre il migliore. Scopre la sindrome di Gilbert: non può bere più alcolici, non come prima. Una sera dopo l’altra pensa a come riempirsi. Finito il dovere, si stordisce andando a letto con il primo che abbia un odore accettabile e non le faccia temere un’infezione.

Gli anni bellissimi

— Ora che ho dimenticato tutto

— Ora che hai dimenticato tutto?

— Sì

— Bé?

— Che faccio?

— Ricomincia no!?

Cambiare casa è un impresa, figurati ventitré. Nella smorfia il numero in questione significa “culo” ma io di culo in quel senso non ne ho avuto. Livia lo sa, lei è intelligente e lo sa, che io e la fortuna siamo continenti in due galassie separate. Respira. Livia mi dice che trattengo il respiro. Grazie che poi mi viene l’ansia. Avrei detto che uno come me poteva essere il figlio scemo di un medico greco e di una massaggiatrice francese. Uno che le ambizioni le ha mancate per il gusto aristocratico di fallire meglio e fallire di più.

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Bologna, Rave party, 1997

— Tu non mi credi mai. Prima di tutto questo ero intelligente

— Ma amore mio io credo sempre a tutto quello che mi dici. Sei intelligente. A modo tuo, ma sei intelligente.

— Ok. Fammi un esempio

— Esempio?

— Sì, esatto. Un esempio

— Andare da un falso psicologo, dargli 50 euro per farti dire che devi prendere la patente, oppure dare fuoco a una pianta in piazza Strozzi, col rischio che ti arrestano per terrorismo salvo poi portarti in una clinica psichiatrica, magari convincendoti che è una spa dove si fa pure meditazione. Sei intelligente amore mio. P.S.: Io amo solo te…

— Ah! Buono a sapersi

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Liu Xiaodong, Chinatown, olio su tela, 200 x 180 cm, 2015

Questi sono i miei anni bellissimi, il dolore cronico dell’ernia è scomparso. Per quanto buche e motorino minacciano ancora la salute della mia schiena. Anche se la convalescenza ha una sua poesia. Pure nella sfiga, stare sul letto a mangiare cous cous, ascoltando le tue repliche infinite di Sarah Kane, che di gioioso non ha molto. Lo sai. Mi tiene stretto. Arreso alla ventitreesima casa con un cratere nel bidet. Legato a un quartiere dove i Bangladesh vendono le mandorle tostate all’una di notte. Avvinto a te che sei la bellezza che mi aleggia addosso, con il profumo francese che non vuoi metterti se non facciamo l’amore. Qui sul tappeto come due cani in calore. Io ti prendo da dietro, così posso accarezzarti il seno e morderti la nuca. Tu ti agiti. All’inizio fingi che non ti piace. Che non hai voglia. Che non mi vuoi. E io ti prometto cinquanta euro. Tu rispondi che sono poche cinquanta. Nemmeno una puttana di quelle senza documenti. Dici. Io raddoppio la posta

— Ti compro una barbie

— Un peluche?

— Uno yo-yo?

— Ti odio, sei un bastardo…

Intanto lo spingo un poco più in fondo. Mi sputo sulle mani e lo lubrifico per farlo entrare meglio. Sudo mentre inizi a mugolare. Ti sussurro che ti pagherò cento euro se lo prendi tutto. Fino in fondo. Ti assesto una sculacciata. Ti infilo lentamente il medio nel culo, accarezzando tutto intorno con cura. Lo so che ti piace. Ti sei bagnata bambina. E abbiamo scopato a lungo e bene. È il mio peggior male: non vedo mai la seconda via.

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Francesca Woodman, Untitled, New York, 1979–80 © George and Betty Woodman

Tutto questo non c’è più. Il passato è una forma di creazione. Come i resti di certe foto attaccate dai pesciolini d’argento. Immagini che diventano magnifiche nella lontananza. Così, amare ritorna semplice, perché è un’azione finita