Due mogli. 2 agosto 1980 di Maria Pia Ammirati

Ci sono morti e non responsabili, ci sono corpi bruciati, ci sono uomini secondari – i mariti suppellettili e i figli accidiosi –, c’è un’orazione civile al femminile, c’è la faction (un po’ finzione e un po’ cronaca di un altro secolo, il Novecento al suo apice d’ottimismo, nonostante tutto così vicino all’attualità). Quante trame di vita su quei binari titolava l’articolo di Biagi, all’indomani dell’esplosione

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Il corpo-Tomba di Maria Pia Ammirati

Maria Pia Ammirati – Le voci intorno – Cairo Publishing, Milano 2012 L’argomento è la morte e nella fattispecie la forma che essa assume per il tramite di un incidente d’auto. Si tratta di morte nelle sue prove corali e familiari, a diversi gradi d’incidenza; in quanto taluni muoiono mentre la protagonista finirà in coma. Nondimeno il tema e la tesi che il fulmineo romanzo di Maria Pia Ammirati porge è affatto tragico, in quanto non ci sono sacre soglie da varcare (la tragedia, infatti, al contrario, consta di un confronto mal riuscito con il sacro), ma rapporti da situare e spiegare. Già in Se tu fossi qui, edito anch’esso da Cairo (2010) e vincitore nel 2011 del Premio Selezione Campiello, Ammirati aveva condotto quello che alla luce di quest’ultimo Le voci intorno suona quasi come una sorta di prequel. Alice è la diciassettenne che apre la storia nel suo punto medio; un attimo prima dell’accelerazione e dell’incidente automobilistico. Scritto in soggettiva comincia nel sudore e nel distacco, al centro delle liturgie del sabato sera. Alcol, pasticche ed eros diffuso. Dentro Alice c’è una strana compostezza, lo si intuisce dal suo modo di esplorare l’intorno, che Ammirati ricalca con sicurezza, seppure nella tentazione di abbracciare la pluralità linguistica dello slang adolescenziale. Il futuro di Alice sta appeso al corpo e si avvita in un rapido presagio. Quel corpo, insieme a quelli di Beppe e Marta, si prepara a essere escluso dal mondo d’un balzo. Ammirati ha una potente misura di corpi. E avvince nella distanza dal melenso e dal lirico di genere. Accarezza i suoi personaggi e non li imbriglia più del dovuto nel contesto; sicché ce li porge parziali, nitidi e, in fondo, inaccessibili: «Mi accorgo di essere sveglia dai rumori, e da questo bagliore che filtra dagli occhi, però non riesco proprio a calcolare il tempo: quanto dormo, quanto sto sveglia, se è notte o giorno; e così per capirlo devo aspettare mio padre […] per riuscire a dormire avevo sperimentato vari metodi, oltre il ticchettio; in genere ripassavo i fatti della giornata, e il sonno mi coglieva durante questo ripasso […] Ma anche un altro metodo era efficace: pensare ai miei vestiti, a quelli più belli, a quali mi sarebbe piaciuto avere, a quali scarpe, come quelle di Marta, che l’altra sera erano bellissime. Chissà che fine avranno fatto, e chissà dove vanno a finire le scarpe dei morti?». Questi corpi immessi in spazi esigui e slabbrati, parcellizzati nella narrazione perché dispieghino le loro metamorfosi: la pelle che si assottiglia, il mestruo da tamponare, l’adipe che deborda. Tutto ciò con una sorta di distanza mista a decoro: che si tratti di schianto e lamiere o di stato vegetativo permanente. I legami che intercorrono fra i personaggi si stagliano concisi, nelle pieghe della manutenzione degli affetti, che il dolore per il coma costringe a ridefinire. Da una storia così si sarebbe potuti arrivare senza deviazioni al monstrum dell’eutanasia, mentre lo si costeggia e lo si doppia con delicatezza. Dopo l’anossia dovuta all’urto che le ha compresso i polmoni, Alice scivolerà in una incoscienza lunga due anni; il suo ragazzo (Beppe) è morto, la nuova amica (Marta), colpevole di una smargiassata conclusa in urto fatale, anche. Mentre il padre e Aurora, sorella minore di Alice, dovranno ricomporre ciò che resta, attorno al suo simulacro che piange dentro e perde di continuo il tempo. A loro tocca il rammendo paziente di una vita comune, smantellata dalla recente morte della madre. Attenzione e resistenza, fiati e conversazioni – “le voci intorno” del titolo – rivolti alla gravosa precisazione della speranza sul motivo del «fulmineo risveglio» e sull’esigenza di disincarnare il dolore; diluendolo, appunto, nella certezza della guarigione. E tutto questo contribuisce a produrre un prezioso dramma civile, ché Dio sembra un astratto furore; algido e lontanissimo. Lo stile di Ammirati tratta le azioni, quelle che appartengono alla sfera dell’intreccio, esplicitandole a partire dall’assenza di architetture narrative. La realtà si spacca e cede a una erosione interna. La scrittura è tersa e veloce, intanto che ripensa la tramatura di una famiglia tarata sulla volontà di aggirare incomprensioni e asprezze; ingenerate, queste ultime, in primo luogo dalla malattia della madre. Così, piccoli vincoli affettivi rinchiusi nell’istituzione ospedaliera evolvono; si chiariscono, recuperando una via parallela alla comunicazione e una forma di sopravvivenza nuova, avvinta proprio al racconto. E precisamente a un diario che diviene elemento meta narrativo; a volere dimostrare che se si scorgono le parole giuste vi è rimedio anche sul piano della realtà. Larvatus prodeo, diceva Descartes (R. Descartes, Cogitationes privatae [1619] ), per procedere dentro i segreti della natura è necessario velarsi. Alice frattanto ha la sua fabula muta; obbligata a farsi testimone di sé, sepolta nell’anima cadavere semi pietrificata. ttusa nel corpo tomba che la vincola e dal quale vorrebbe, a un certo punto, prendere congedo; contro il corpo figura «tutto fuori» e «tutto per gli altri», che quegli altri tengono fermo, in vita, in relazione d’appartenenza. Ammirati tenta una sorta di eudaimonia: un distacco felice dalla realtà evenemenziale, dalla morale, dal sistema-paese e dai suoi farisei. Di fatto da ogni parvenza di giudizio radicale. Alice tornerà fra i viventi; toccata dal fuoco e quasi inservibile, quanto necessaria a normalizzare il corpo-cibo di Aurora e a diminuire la tristezza consustanziale del padre. Verosimilmente per effetto dell’amore e con molta probabilità come conseguenza di una direzione ostinata e sorda alla causalità scientifica. Un finale periglioso per quei dilemmi veri e crudi che appartengono agli oppositori dell’accanimento terapeutico. Uno zelo freddo, etico e medico, quello che spesso si consuma sulla pelle di chi resta e deve interpretare un volere, quello del malato, fattosi irrilevante, prendendosene carico per intero. Ma la morale non s’attaglia all’arte, lo sappiamo, e Ammirati in tal modo tiene strette le briglie della sua storia, che ci porta con sé verso un finale di sollievo.