Non era mica brava a scuola. Le sembrava tempo sprecato star fermi. Un’insopportabile paralisi. Fuori il sole, dentro i libri. Fuori la corda, il cesto, la terra, dentro i quaderni. Dentro l’ordine, fuori il gioco. Dentro buio, fuori luce. Dentro i vecchi, fuori i bambini. Fuori lei, separata dai bambini
La sua vicina di casa la usava come bambola. La truccava, la vestiva e si chiudeva nell’armadio. Fingendo di essere un principe. Fuori restava il cortile. Vuoto. Dentro i nonni malati. In seguito, la vicina, che aveva otto anni più di lei, se ne andò con un ragazzo maggiorenne e geloso. All’interno dell’armadio non abitava più nessuno.
Era lenta. Quando guardava in una stanza le cose e le persone si allontanavano. In modo impercettibile, ma si allontanavano. Così, se la chiamavano per andare a tavola, a mangiare o a essere punita perché non voleva, finiva per tardare
La sua forma era piccola, pensava a una bambina di plastica ancora più minuta, che la venisse a trovare durante la notte. Dentro le altre stanze c’era il silenzio ma nella sua si bisbigliava. Il vicino di casa bambino l’aveva convinta dell’esistenza di un mago nella scarpiera dell’ingresso. Nel suo ingresso. Lei andava a rivolgere le sue preghiere all’entità delle scarpe. Ogni pomeriggio alle tre in punto. Nella penombra dell’anticamera pregava con forza che tutti e quattro ringiovanissero.
Ogni male si spegne nella luce del fuori. Anzitutto nella luce. Dentro c’era molta oscurità mista a tanto amore. L’oscurità vinceva per la sua calma. Fuori non c’era nessuno ma quando andava a vedere i treni non pensava più alle stanze chiuse, all’odore di medicine, ai bambini lontani. Sapeva che sarebbe andata. Una partenza inevitabile. Loro sono rimasti dentro.