“La stanza” e “Ripensamenti”, due prose brevi di Anita Tania Giuga

“La stanza” e “Ripensamenti”, due prose brevi di Anita Tania Giuga

CRITICA IMPURA

Gianfranco Basso, " Dualismo postumanistico locale" – Tecnica mista su tela – 69×101 cm Gianfranco Basso, “
Dualismo postumanistico locale” – Tecnica mista su tela – 69×101 cm

Di ANITA TANIA GIUGA

La stanza

Non posso arredare la stanza, disse la ragazza. Dovrò andare via. Meno peso avrò meglio sarà. Lui teneva gli occhi bassi e giocava con le perle di legno del bracciale africano. La ragazza cominciò a spogliarsi, in silenzio.

Il silenzio era subentrato alla fine della playlist di Youtube. Si sentiva il fiato di entrambi. Le note della ragazza erano diventate alte, quelle del ragazzo gutturali.

« Come stai?», disse la ragazza

« Adesso bene », disse il ragazzo

Nella stanza il calore si era propagato e le coperte erano diventate fastidiose. Il ragazzo, nudo, fra le lenzuola di colore indefinito, si era disteso sul fianco e stava guardando i dorsi dei libri vicino al letto. Li accarezzava con l’indice e nella mente diceva: Addio Salinger, addio Bernhard, addio Trevisan. Fuori…

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Libri tanto amati: Luca Pantarotto e J. D. Salinger

Giacomo Verri Libri

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(Il giovane Holden contro i mulini a vento, foto di Luca Pantarotto)

J.D. Salinger e Il giovane Holden

Ho conosciuto Holden Caulfield, guarda caso, proprio l’11 settembre 2001. Io avevo 21 anni, lui ne aveva 16. Sulle prime pensavo di essere troppo vecchio per appassionarmi alla sua storia. Parlava in un modo buffo e faceva cose strane, lì per lì lo presi per un ragazzino un po’ cazzaro, viziato, superficialmente ribelle, confuso in modi spesso inopportuni e angosciato da quella particolare categoria di problemi stupidi che vanno sotto il nome di “first world problems”. Roba del tipo: “Nei bar non mi servono alcolici perché sono un maledetto minorenne”. O “Non riesco a trovare il coraggio di chiamare quella tipa”. O “Chissà dove se ne vanno d’inverno le anatre, quando il lago si ghiaccia”.

All’epoca non sapevo nulla di letteratura americana – di nessuna letteratura, in effetti: quando fai lettere…

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Oggetti fuori posto

Giorno. Letto. Tavolo. Telefono. Bocca. Sete. Erezione.

Lo sai? Non si può avere la musica. La luce fino a tardi. Non si può mangiare quando ho fame. Siamo lontani e tu mi odi? Ti amo e ancora, ancora. Amore come neve che scivola dentro la stanza. Ti amo invece che dormire.

Freddo. Caffè. Telefono muto. Senza batteria.

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Agalmatophilia

Stomaco chiuso. Occhiate. Diffidenza. Camera. Pillole

In realtà ogni forma è vuota. Mi dicevano . “Tu sei una forma vuota. Un cranio e il cervello non ci sta dentro”

Lavati dai

Metti le mani nell’acqua, l’acqua sulle mani, le mani con l’acqua sulla faccia

In questo ci sei tu. Il tuo odore di sudore e terra. Mi hai lasciato solo. Solo. Solo.

Pigiama. Libro. Matita senza punta. Ti amo, ti amo e mi manchi. Non posso scrivere, potrei ferirmi con una punta, dicono i dottori

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Filipe Branquinho, Untitled

Mi sveglio e non ci sono più i libri, lo stereo, la penna che avevo nascosto e dimenticato sulla scrivania. Non c’è nemmeno lo specchio. L’hanno tolto? Mi tocco la faccia, mi guardo le mani. C’è qualcosa di diverso. La pelle è così screpolata che si spacca. Ho una benda sulla testa. Mi hai raccontato che ti aveva seguita e bloccata in palestra. Non c’era nessuno, solo te e lui. Ti aveva parlato, chiesto di tua madre e di tuo fratello. Si era avvicinato e ti aveva sfiorato la ciocca di capelli viola. Aveva riso. Ti eri allontanata, mi hai detto. Così, ti è corso dietro, spinta e trascinata fino alle parallele. Ti aveva tenuto le mani in alto. Sentivi il suo fiato davanti alla bocca. Ti ha preso la mano destra e ha cominciato a leccare il palmo, a lingua molle, seguendo le linee. Una per una. Alla fine se n’è andato. Me l’hai detto dopo una settimana. Spostando un sasso con la punta dello stivale. Parlavi ma eri assente. La voce era piatta. Impersonale. Non me lo dicevi, me lo stavi comunicando.

Non ho le stringhe delle scarpe, dormo tanto, come faccio a scriverti? Mi rubano la corrispondenza, sono certo.

Lettera confiscata

Non lo so. Non so perché te lo scrivo, ti farà ancora più male. Mi devo liberare la coscienza. Sapevo come sarebbe andata a finire e non sono riuscita a fermarmi. Lui non è stato così… mi ha toccato e non mi ha fatto male. Non ha avuto fretta. Ha detto le cose che servivano a non sentirsi estranei. Ho pensato a lui nel frattempo, quando parlavamo e stavi zitto, ho pensato che te lo avrei scritto che non dovevo. Ho pensato che c’e in me qualcosa di sbagliato. Mi mette a disagio ma questa distanza con te è giusta. Non so. Mi sembra di guardarmi, di spiarmi allo specchio e non trovarmi. In quel momento in palestra era come avere un terzo occhio puntato addosso. Mi faceva schifo e mi piaceva. Non potevo accettare che mi piacesse. Gli ho parlato tutto il giorno, qualche volta mi sentivo strana. Ho avvertito questo calore strano. Ma non lo cercherò più, te lo giuro. Come lo spiego, che mi fruga e non c’è. Perché lo sento, lo sperimento dal suo tono anche se la sua voce non mi arriva. Però non lo vedo ovunque, non lo voglio come te. Lui non c’è. Non sei tu, non sarà mai te. Questa immagine non è giusta. Lui è seduto composto, come il dottore che ausculta. Il medico di famiglia che mi ha vista crescere. Mi ha guardata mettere su le tette. Sa di me cose… il corpo è talmente in alto che scompare, si gonfia, trema. Come cazzo c’è riuscito a farci questo?

Ti amo

A.